Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Siamo nel 1968 e l’Italia, accodandosi al resto del mondo, è impegnata a gridare nelle piazze e nelle università, scioperare nelle fabbriche, sovvertire quelle istituzioni e quelle ideologie di un tempo, giudicate ormai datate, superate, ingiuste. In questo clima di rivoluzione sociale e culturale, in cui gli studenti scoprono una coscienza studentesca, le donne una coscienza femminista, gli operai e i lavoratori una coscienza politica e sindacale, l’intellettuale (veggente?) Pier Paolo Pasolini compie un passo indietro rispetto a tutto e a tutti, decide di osservare in modo distaccato (e disincantato) ciò che gli sta accadendo intorno. Sembra strano che una figura così politicamente schierata come Pasolini non abbia fin da subito abbracciato con convinzione ed entusiasmo gli ideali di quel glorioso ’68 come fecero invece altri personaggi. Pasolini sceglie l’analisi del fenomeno, sceglie di aspettare, scrivere, teorizzare. Questo suo pensare lo conduce a partorire Teorema che, come lo stesso Pasolini disse, nacque prima come tragedia in versi, poi fu concepito come romanzo ed infine adattato in film.
Il Teorema di Pasolini è semplice quanto scomodo: data una tradizionale famiglia borghese X, a contatto con un elemento Y, misterioso e non controllabile, quest’ultimo modifica in modo irreversibile gli equilibri e i connotati di ogni elemento della famiglia stessa, i quali si distruggono assumendo nuova forma.
Nel film la famiglia in questione è composta dagli archetipi del Padre Paolo, capitano d’industria dal carattere complesso, la Madre Lucia, donna sessualmente repressa e osservante della morale e della condotta borghese, il Figlio Pietro, studente con timide attitudini artistiche, la Figlia Odetta, introversa e succube della famiglia ed infine la Domestica religiosamente devota Emilia. L’Ospite inatteso e misterioso è interpretato da Terence Stamp, attore che, come vedremo, ha molto a che vedere con il poeta francese Arthur Rimbaud. Come teorizzato da Pasolini, i fragili equilibri della famiglia vengono distrutti dall’arrivo del misterioso Ospite che, dopo aver avuto rapporti sessuali con ognuno dei componenti della famiglia, lascia improvvisamente la casa senza fare ritorno.
Ogni componente della famiglia compie così la sua irreversibile e traumatica metamorfosi: la Domestica ritorna alle sue origini campagnole dove vive di misticismo religioso nutrendosi di terra e ortiche fino a librarsi in cielo; la giovane Figlia cade in stato catatonico e viene internata; il figlio Pietro prende la via dell’arte astratta per cerare di superare la disperazione; la Moglie inizia a vivere vuote esperienze erotiche con giovani sconosciuti; ed infine il Padre dona la fabbrica agli operai, si spoglia di tutti i suoi beni quasi come un moderno San Francesco e inizia a vagare nudo per il deserto.
In una iconica scena della pellicola, Terence Stamp (in un film del 1971 dal titolo “Una stagione all’inferno” diretto dal poeta Nelo Risi, fratello del più famoso cineasta Dino, interpreterà proprio Rimbaud) legge alcuni libri seduto su una sdraio in giardino sotto lo sguardo inquieto della Domestica impegnata a pulire il prato: i libri in questione sono due e la scelta dei titoli da parte di Pasolini non è casuale. Il primo s’intitola “Elementi delle costruzioni civili - Elementi murari”, il secondo è una raccolta di opere di Rimbaud. E’ come se Pasolini sottolineasse la capacità distruttiva della poesia e della personalità di Rimbaud, quel suo potere di cambiare chiunque ne entri a contatto, la forza capace di abbattere quegli “elementi costruttivi e civili” che ognuno di noi possiede, che compongono la nostra persona, la nostra morale, le nostre certezze e che invece, a contatto con l’Universo-Rimbaud, si polverizzano per poi rinascere sotto un’altra forma. E’ lo stesso Pasolini a esprimersi a riguardo in una intervista del 1971 nel programma di Enzo Biagi “Terza B facciamo l’appello” in cui racconta il suo primo incontro con la poesia di Rimbaud, conosciuto grazie alla supplenza all’ultimo anno di liceo Galvani di Bologna del professore e poeta Antonio Rinaldi che lesse una poesia di Rimbaud alla classe non sapendo come impegnare il tempo. “In quel momento divenni antifascista” dice Pasolini riguardo quell’esperienza, a voler sottolineare che sì “la poesia cambia la vita”, ma la poesia di Rimbaud ha qualcosa di davvero magnetico quanto traumatico per chi ne entra a contatto.
Così, come Pasolini alla lettura di Rimbaud decise il suo orientamento politico, anche i personaggi della famiglia X del suo Teorema, a contatto con L’Ospite Y (che adesso possiamo affermare essere un eccellente rappresentazione di un moderno Rimbaud inserito in un contesto borghese di fine anni ’60) si trovano ad affrontare radicali cambiamenti esistenziali ed irreversibili. Quella borghesia all’apparenza così sicura ed impenetrabile, fatta di rituali, regole, mansioni, timide concessioni al piacere disvela la sua vera identità, leva la propria maschera , crolla sotto il suo stesso peso di quegli “elementi murari” costruiti per proteggersi da attacchi esterni, lasciando spazio alla fragilità, all’ipocrisia e alla consapevole ignoranza da sempre denunciate dall’intellettuale bolognese.
A voler formulare anche noi un nostro Teorema, o una sorta di ricetta medica o di avvertimento ai futuri lettori che verranno, sembra davvero che dall’incontro con Rimbaud seguano sintomi di turbamento, smarrimento, alle volte disgusto ed altre volte invece di totale ammirazione (disse di lui Léon Valade poeta parnassiano “quel poeta terrificante dalla faccia da bambino; selvaggio più che timido; affascinava o spaventava con i suoi stupefacenti poteri e la sua depravazione” mentre Mallarmè disse “di pubertà perversa e superba” ed infine “ignobile, vizioso, disgustoso, indecente piccolo scolaro” è l’opinione furibonda di Charles de Sivry, cognato di Verlaine) ma andiamo con ordine.
Suddividiamo gli incontri di Rimbaud in due gruppi:
Partendo dal fortunato primo gruppo che ebbe l’onore e il privilegio di frequentarlo da poeta non possiamo non iniziare dal suo amante Paul Verlaine: i due si incontrano per la prima volta il 24 settembre 1971 dopo una corrispondenza epistolare nella quale Rimbaud aveva scritto delle poesie ammaliando Verlaine che, nonostante fosse sposato, s’innamora del giovane poeta. La loro relazione produce celebri composizioni tra le quali spicca la “pornografica” Sonnet du trou du cul, ma allo stesso tempo alla passione e all’amore dei due di contrappongono continue violente litigate fatte di offese, pugni, coltelli e quel famoso colpo di pistola sparato da Verlaine contro Rimbaud il 10 luglio 1873. Verlaine è sicuramente tra i personaggi più influenzati dal suo incontro con Rimbaud: riscopre le sue tendenze omosessuali che aveva timidamente nascosto agli altri e a se stesso sposando la signora Mathilda (che merita una menzione d’onore tra le persone che hanno incontrato Rimbaud da vivo: non sempre ben trattata né dal marito né dal giovane poeta di Charleville che lei definì “ contadino dagli occhi blu, abbastanza bello ma con un’espressione sorniona”).
L’espressione “sorniona” di Rimbaud piacque così tanto a Verlaine da spingerlo ad abbandonare la moglie e la Francia per avventurarsi in Inghilterra alla volta di Londra, tra amore passionale e tanti alti e bassi economici e sentimentali. Tralasciando i dettagli che renderebbero questo scritto più simile a una cronaca rosa che ad una analisi sugli in(s)contri di Rimbaud, possiamo affermare che la vita di Verlaine non sarebbe stata certamente la stessa senza la figura di quel giovane poeta così geniale quanto distruttivo: da un punto prettamente letterario, Verlaine senza Rimbaud non avrebbe vissuto una tra le storie d’amore più famose della letteratura, non avrebbe composto sonetti e poesie a lui dedicati e non avrebbe lasciato la povera Mathilda; da un punto di vista più venale e materiale, Verlaine senza Rimbaud avrebbe probabilmente risparmiato 23 franchi per comprare una pistola e si sarebbe evitato 18 mesi di carcere.
Probabilmente neanche quell’anonima “vedova civile” che ospitò Rimbaud al suo arrivo a Milano nel maggio del 1875 si sarebbe immaginata un giorno di essere la destinataria della dedica della prima monografia italiana sul poeta francese scritta da Soffici e pubblicata nel 1911: “Alla ignota signora milanese che soccorse e forse amò Rimbaud affamato e vagabondo per l’Italia”.
Come a voler dire che basta entrare a contatto con Rimbaud ed ecco che “la mia anonima vita da vedova dal buon cuore grazie all’incontro con questo vagabondo e misterioso Ospite (più Teorema di così…) si trasforma in motivo di letteratura”; senza quell’incontro sarebbe rimasta probabilmente una qualsiasi sconosciuta vedova della Milano di fine ottocento, eppure oggi risulta sì ancora una vedova sconosciuta ma non certo una dimenticata dalla storia.
In chiusura al primo gruppo di personaggi che lo frequentarono da poeta, non possiamo certamente non citare il suo giovane professore Georges Izambard che senza la conoscenza di questo geniale Shakespeare enfant avrebbe sicuramente risparmiato tanta preoccupazione e qualche somma di denaro in meno per tirarlo fuori dalla galera; l’amico Paul Demeny con il quale Rimbaud tenne per anni una cospicua e preziosa corrispondenza epistolare e al quale affidò i manoscritti de Cahier de Douai e nel 1871 gli indirizzò la celeberrima Lettre du Voyant.
Scorrendo più velocemente gli incontri di Rimbaud durante il suo periodo in Africa, fuggito a quella società cristianizzata tanto odiata da ragazzo raccontata nella sua Une saison en enfer come “l’inferno in cui sono precipitato, sono schiavo del mio stesso battesimo”, il suo atteggiamento e il suo temperamento sembrano cambiati drasticamente: non più follie poetiche da giovane ribelle, ma “inesauribile pazienza, forza di volontà, viaggiatore esperto” come lo definisce l’esploratore Jules Borelli quando lo incontra il 6 febbraio 1887. “Un uomo pacifico, alieno alla politica, occupato nei suoi commerci” dirà di lui invece Edoardo Scarfoglio, giornalista italiano nelle colonie d’Africa, al loro incontro in Somalia tra il marzo e l’aprile del 1891. Dunque quella sua “condanna ad errare, ogni giorno perdo il gusto del clima, il modo di vivere e perfino a lingua d’Europa” come scrisse alla famiglia nel 1883, oppure quel suo celeberrimo “io non penso più a questo” riferito all’atto di scrivere pronunciato all’amico Delahaye già nel 1879 a Roche, sembrano essersi avverati: lasciate alle spalle le sue origini, la sua cultura adesso vaga anche lui trasportato dalle correnti come il suo Le Batteux Ivre, vagabondo sotto le stelle “dal dolce frou-frou”, perduto nel deserto come il Padre di Teorema.
Così come Pasolini, che quella mattina a scuola decise di diventare antifascista, così come tutte le persone che lo hanno incontrato c’è chi è stato ferito, chi è stato sedotto, chi amato, tradito, ispirato, disgustato eppure nessuno è stato esente dal quell’espressione “sorniona” del poeta di Charleville.
Rimbaud diviene quindi l’Ospite inatteso Y del nostro Teorema, l’elemento capace di rendere bianca la pagina delle nostre certezze per scriverne di nuove, l’individuo così esterno (ed estremo) rispetto alla nostra società tanto da riscriverla.
Rimbaud è passato alla storia come il battello ebbro dal vagabondare infinito, anche Pasolini fu corsaro a modo suo, anche lui, consapevole della propria anima, dopo averla indagata a pieno decise di esprimersi sulla sua contemporaneità, cambiandola radicalmente; due veggenti opposti e simili al tempo stesso.
Chissà invece quale fu l’Incontro più importante nella vita di Rimbaud.
Difficile dirlo, ma azzardare un’ipotesi concluderebbe nel modo giusto questo scritto: forse, fu il 7 agosto 1872 ad Ostenda in Belgio, quando Rimbaud, per la prima volta nella sua vita incontrò il mare.
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