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Teorema

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Teorema

di (spopola) 1726792
8 stelle

“Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto” (Esodo,3, 18). Potrebbe essere questa la sintesi più giusta per definire l’immaginifico, potente Teorema Che Pasolini girò in pieno 1968?

“Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. E’ il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”: così lo stesso Pasolini definì la figura del suo “Ospite”, il deux ex machina di questa pellicola, nel corso di un’intervista pubblicata nel 1968 dalla rivista francese “Quinzaine littéraire”.

Difficile per me provare a parlare di Teorema e aggiungere qualcosa di nuovo perché già molto prima di me (più esattamente nell’ottobre del 2010) si è cimentato nell’ardua impresa di “raccontarlo” e interpretarlo (con esiti a dir poco “straordinari”) l’amico @ Peppe Comune che con la sua invidiabile sensibilità “conoscitiva” e una prosa smagliante in odore di “poesia” (l’acutezza del suo scritto è davvero sorprendente), ha detto proprio tutto ciò che c’era (e c’è ) da dire  su questo titolo fondamentale che conclude un ciclo e ne apre immediatamente un altro, nel percorso artistico/cinematografico di Pasolini (è possibile leggere la recensione digitando il link //www.filmtv.it/film/11670/teorema/recensioni/503218/#rfr:film-11670  e invito tutti a farlo perché si tratta di un pezzo difficilmente eguagliabile per la sua potenza espressiva, la lucidità  critica dell’indagine, l’acutezza e la profondità dell’analisi: indubbiamente uno dei migliori fra quelli pubblicati qui sul sito almeno da qualche tempo a questa parte).

Consideriamo dunque una semplice appendice tecnica di conoscenza questo mio intervento “tardivo” originato dal fatto che proprio nelle scorse settimane, ho dovuto “revisione l’opera” per rinfrescarmi un poco la memoria,  essendo stato chiamato a farne una breve introduzione (una specie di guida alla visione) in occasione della proiezione del film scelto come evento di chiusura di un ciclo dedicato all’opera del sommo Poeta organizzato presso la Casa del Popolo di Vingone dal Cineclub “Gli amici del Cabiria” di Scandicci.

Come ben sappiamo, Teorema era stato pensato per essere realizzato in forma di tragedia in versi, idea però ben presto accantonata per trasformarla in quella del romanzo che conosciamo, un suggestivo “ibrido” che alterna la scrittura in prosa con pagine strutturate coi ritmi e le cadenze tipici della poesia (i frammenti in versi recuperati dal progetto originale) da cui deriva poi – in pieno ’68 – la stesura della sceneggiatura cinematografica (creata praticamente in contemporanea) nella quale Pasolini riduce drasticamente la presenza del "parlato" (i dialoghi sono ridotti al minimo e sostituiti in parte da brevi “soliloqui”). Anche l’andamento “sussultorio” della storia è decisamente  lontano da quello del “racconto tradizionale” così come di solito veniva organizzato  in quegli anni. Presenta infatti molti elementi di novità a partire dal fatto che  il regista si affida principalmente alle immagini (e secondariamente anche alla musica) per rendere palese il suo discorso, e costruisce così  una messa in scena “antinarrativa” che sfiora gli eventi e si concentra invece molto di più sulle conseguenti “mutazioni” che questi determinano nei suoi personaggi.

Romanzo e film nacquero dunque praticamente  insieme, e si può ben affermare quindi che se è dal romanzo che  nasce il film, è poi lo stesso film che a sua volta ha inciso parecchio nella definizione della stesura del libro, così come è stato poi pubblicato. Romanzo e film rappresentano infatti un dittico inscindibile. Tornerebbe di conseguenza molto utile per gli spettatori/lettori (anche per la chiarezza dell’assunto) se le due “variazioni sul tema” venissero acquisite e metabolizzate in contemporanea (o per lo meno in sequenza molto ravvicinata). Lo consiglia lo stesso Pasolini quando – sul frontespizio della prima edizione del volume uscito anch’esso nel 1968 per i caratteri della Garzanti – scrive: ”Teorema è nato, come su fondo oro, dipinto con la mano destra, mentre con la mano sinistra lavoravo ad affrescare una grande parete (il film omonimo). In tale natura anfibologica, non so sinceramente dire quale sia prevalente: se quella letteraria o quella filmica. Per la verità, Teorema era nato come una piéce in versi, circa tre anni fa; poi si è tramutato in film, e contemporaneamente, nel racconto da cui il film è stato tratto e che dal film è stato corretto. Tutto questo fa sì che il modo migliore per leggere questo manualetto laico, a canone sospeso, su una irruzione religiosa nell’ordine di una famiglia milanese benestante, sia quella di seguire i “fatti”, la “trama”, trattenendosi sulla pagina il meno possibile per poi verificare il tutto  in forma più concreta, al cinema. Almeno così credo. Quanto al resto, il “discorso libero indiretto” borghese, che, volendo o non volendo, ho dovuto distendere sotto il tessuto della prosa poetizzante, ha finito per contagiare anche me, fino a dotarmi di un leggero senso dell’umorismo (spero che si avverta), del distacco, della misura (e rendendomi forse, con grande mia rabbia, meno scandaloso di quanto il tema avrebbe richiesto): tutto comunque, credo, resta sostanzialmente osservato e descritto da un angolo visuale estremistico, forse un po’ dolce (me ne rendo conto), ma, in compenso, anche senza alternative.

E’ partendo da queste premesse dunque che Pasolini realizza una delle più controverse e originali opere della sia vasta produzione filmica, che potrebbe benissimo essere considerata come il riuscito tentativo di dimostrare, utilizzando una forma molto vicina a quella del saggio didattico, “l’incapacità dell’uomo moderno di percepire, ascoltare, assorbire e vivere il verbo sacro”, come ben lo definì a suo tempo il critico Gianni Volpi. Un’opera che sottolinea il "vuoto", l’impotenza, la "non esistenza" che costituiscono l’essenza stessa della borghesia che va a toccare – con una irrazionalità tutt’altro che reazionaria o mistica - le basi concettuali di una cultura che del proprio mezzo – la ragione illuministica  - aveva fatto la gabbia in cui imbalsamare definitivamente, con tutto il carico di ingiustizia presente, la società nei suoi schemi irremovibili, nei suoi antagonismi tutti interni ad essa (Serafino Murri).

E’ in effetti un vero e proprio “teorema” in cui il regista, per dimostrare la sua ardita tesi, mischia fra loro suggestioni di ascendenza biblica e dichiarate influenze psicoanalitiche spesso presenti anche nel suo cinema precedente, portando così alle estreme conseguenze e in forma più schematica che in passato, la formulazione complessa e articolata delle sue teorie poetico-ideologiche. Lo fa, coniugando Marx con Freud (ci era riuscito già con ottimi risultati ne La ricotta, Uccellacci e Uccellini e Il vangelo secondo Matteo) ma aggiungendo anche, questa volta, una buona dose di Marcuse e Jung.

Ne è uscita fuori una storia dal forte sapore metaforico in cui (e cito ancora Gianni Volpi) Pasolini eleva l’erotismo a tangibile e quasi fisico segno rivoluzionario

Di fatto, viene rappresentata, da un lato la piétas della cultura contadina intesa come quell’arcaico sentimento religioso condannato a scomparire a causa dell’inarrestabile processo di trasformazione dei proletari in piccolo-borghesi (un topos ricorrente che attraversa trasversalmente buona parte della sua opera e che ritroveremo più esplicitamente esposto in opere come Medea e Edipo re), e dall’altro l’”empietà” (passatemi il termine) della società borghese che si estrinseca qui nella sua incapacità – quand’anche arrivasse un “miracolo” in grado di liberarla dalla sua falsa coscienza -  di acquisire davvero  un reale sentimento effettivamente riappropriativo (e quindi scevro dagli interessi di casta)  del senso originale del divino.

Come si può ben comprendere da quanto sopra esposto, Teorema è davvero un’opera difficile da classificare e addirittura impossibile da circoscrivere in un genere preciso che non sia quello “dell’astrazione teorico-filosofica”. Qui infatti è proprio attraverso quella formulazione del pensiero che Pasolini prova ad interpretare a suo modo – e in sottotraccia – persino il ’68. Lo fa con una veemenza appassionata e uno sguardo impietoso e personalissimo che lo porta ad evitare l’utilizzo dell’arma spuntata del pamphlet politico e del dissenso oratorio per usare invece al loro posto l’afflato “mediato” della poesia. Il problema dunque è preso ugualmente di petto, ma affrontato scegliendo di percorrere una strada molto più impervia e “pericolosa” (che fu peraltro davvero poco compreso all’epoca), a partire dall’introduzione nel suo discorso critico, del tema “inaudito” (il termine non è farina del mio sacco: l’ho trovato scritto da qualche parte, ma non ricordo dove) e scomodo del “sacro” al fine di costruire attraverso questo, un audace quanto originale parallelo fra sessualità e sacralità finalizzato a mettere in evidenza in maniera inequivocabile, l’aridità di quel razionalismo sul quale la borghesia ha fondato le sue fortune e prosperato indenne per troppo tempo.

E’ dunque proprio attraverso questo parallelo che esprime il suo giudizio fortemente negativo su quel movimento assolutamente centrale nella vita socio-politica della seconda metà del novecento (parlo del ’68 ovviamente) e da lui considerato un’infeconda lotta intestina della borghesia[1] (una posizione che sembrava quasi un’eresia in quegli anni, ma che i fatti letti a posteriori e visti in prospettiva, hanno confermato invece come realisticamente veritiera).

 

La storia che si racconta nel film, parte quasi come una moderna annunciazione veicolata a mezzo telegramma (un laconico “arrivo domani”) da un postino (lo “svolazzante” Ninetto Davoli) che non a caso si chiama Angelo. L’arrivo “rivelato”, è quello di un Ospite che ha le ambigue  fattezze “angelicate” di un giovane e appropriato Terence Stamp, che con la sua androgina bellezza, sconvolgerà da subito gli equilibri e le sorti della famiglia che è stata scelta per accoglierlo (metafora evidente di un panorama molto più vasto e generalizzato: quello dell’intera società che è chiamata a rappresentare costretta suo malgrado a fare i conti con se stessa e a rivelarsi per quello che veramente è ed è sempre stata)

Tu sei dunque venuto in questa casa per distruggere.

Che cosa hai distrutto in me?

Hai distrutto, semplicemente,

-  con tutta la mia vita passata –

l’idea che io ho sempre avuto di me stesso.

Se dunque da molto tempo

io avevo assunto la forma che dovevo assumere

e la mia figura era in qualche modo perfetta,

ora, che cosa mi rimane?

Non vedo niente che possa reintegrarmi

nella mia identità. Ti guardo: non mi ascolti

con imparzialità – perché tu non ti dividi in parti –

ma con dedizione – perché tu ti dai tutto a ognuno.

Come può, tuttavia, la tua presenza consolatrice

essere così pura, tanto da manifestare

quasi una chiara volontà di distacco?

 

L’Ospite – come forse si è già abbastanza compreso da queste premesse – è un’affascinante quanto un po’naïve incarnazione del “divino”, anche se non tutti sono proprio d’accordo su questo punto: più di uno ha infatti osservato dimenticando le stesse indicazioni fornite dall’autore (il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. E’ il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi) che è errato considerarlo la rappresentazione di un’allegoria del “divino” poiché non ha alcuna qualità sovrumana che lo possa collocare in tale direzione. Più banalmente insomma, per quelli che hanno sposato questa tesi, il suo è semplicemente un modo per  essere "Altro"   il che personalmente - anche se perfettamente “calzante” -, mi sembra abbastanza riduttivo rispetto a quella logica borghese a cui si accennava prima).

Qualunque sia il riferimento certo (e vincente) che deve essere attribuito alla sua metaforica presenza (una esigua minoranza ha voluto addirittura interpretarla come quella di un seducente diavoletto tentatore),  tutti sono invece assolutamente concordi sulla funzione all’interno del “progetto” pasoliniano della sua figura. E’ universalmente riconosciuto insomma che l’Ospite è l’elemento catalizzante atto a rendere chiara la soluzione del teorema nel dimostrare  “inconfutabilmente” come  l’autoperpetuazione della borghesia conduca inesorabilmente alla perdita di identità e  - conseguentemente – al suo smarrirsi nell’aridità di un "deserto" che prelude il nulla, esattamente come accade a tutti i  membri della famiglia, “borghese” fino all’osso, del benestante industriale milanese: padre, madre e due figli (maschio e femmina) accudita da una domestica di umili origini proletario/contadine (non a caso chiamata ancora “serva”) che sarà la prima a cedere alla fascinazione androgina dell’”intruso (l’unica ad essere in qualche modo toccata e “modificata” in maniera decisamente più positivo rispetto a tutti gli altri), ma anch’essa preda di una crisi profonda, inesorabile preludio di quello smarrimento generale del quale però parleremo più ampiamente in seguito.

L’incontenibile “attrazione” per quel ragazzo dalla angelicata bellezza, la paura di essere rifiutata, la porterà addirittura a tentare  il suicidio, per essere però prima salvata,  e alla fine anche “amata”, dall’Ospite stesso.

E’ infatti soprattutto attraverso azioni che hanno precise implicazioni sessuali (l’Ospite si “dona” a tutti, uomini e donne, indiscriminatamente ma in modo totalmente naturale: per lui infatti il sesso è totalmente svincolato dal mero desiderio della carne o da qualsiasi aspirazione di “possesso”) che si compie quella necessaria “dissoluzione” che  porterà tutti i componenti del nucleo familiare a rinnegare (rifiutandolo) il senso della propria precedente esistenza:

La paura e l’ansia di non averti più vicino

a soddisfare il mio desiderio di vederti e toccarti

dove tu mi sei compagno, ma più giovane e fresco,

come un bambino, e più maturo e potente,

come un padre che non sa quanto sia divino

il suo semplice membro –

è ben diversa dalla coscienza

di doverti perdere per tanto tempo, forse per sempre.

E’ la coscienza della perdita

che mi dà la coscienza della mia diversità.

Che cosa succederà da questa notte in poi?

Il dolore dell’addio sconfina

con questo senso tragico di un futuro

da passarsi in compagnia di un nuovo Pietro,

completamente diverso da me.

E cosa rispondono, in silenzio, a tutto questo

i tuoi occhi seri, amici e oscuramente spietati

(o già lontani)? La tua intenzione

è forse quella di spingermi sulla strada della diversità

fino in fondo e senza compromessi?

Vuoi dire che se questo amore è nato

è  inutile tornare indietro,

è inutile sentirlo come una pura e semplice distruzione?

Che, quanto al dolore della separazione,

io potrei trovare qualcuno che potrebbe sostituirti,

e ricercare quei sentimenti

di ridicola tenerezza e bestiale passività

nati così da poco e interrotti così bruscamente?

E se tu sei stato un padre senza rughe e senza capelli grigi,

un padre com’egli era quando aveva poco più della mia età,

non potrebbe essere un padre come questo

a sostituirti? Anche se

ciò è inconcepibile e spaventoso,

anzi, proprio per quello?

 

Tutti dunque hanno rapporti sessuali con questo giovane ragazzo schivo, riservato, assorto in se stesso (e totalmente avulso dagli schemi e dalle convenzioni che regolano la vita quotidiana  della famiglia) che passa le giornate a leggere l’opera omnia di Rimbaud e che, come l’Adorabile descritto dal poeta, "E'  venuto, se ne è andato, e forse non tornerà mai più". Anche l'Ospite, infatti, richiamato da un nuovo telegramma recapitato dallo stesso postino-angelo, se ne andrà, improvvisamente come era arrivato e senza alcun motivo lasciando in  tutti la costernazione più profonda per quella “incolmabile” perdita.

Il dopo, si potrebbe definire come la sofferenza nostalgica dell’assenza e la tormentata, disperata attesa di un (im)possibile ritorno:

A che serve consolarmi, se tu, volendolo,

potresti rinviare, anche magari per sempre,

la tua partenza? invece tu partirai:

su questo non c’è il minimo dubbio.

La tua pietà è dunque subordinata

a qualche altro misterioso disegno.

Vuoi forse dirmi (non parlando, ma semplicemente

attraverso il fatto che sei un ragazzo)

che tu potresti essere sostituito, ora,

da mio figlio o da mia figlia?

Proposta completamente folle (preordinata,

forse, da qualche mia oscura volontà)

eppure giusta, se, benché realizzata

(il membro nudo di mio figlio, la vulva nuda di mia figlia),

non fosse che un simbolo: e se, attraverso essa,

tu mi esortassi alla perdizione più totale,

a mettere la vita fuori di se stessa,

e mantenerla una volta e per sempre,

fuori dall’ordine e dal domani,

facendo di tutto questo la sola reale normalità.

Forse perche chi ti ha amato deve

(…)

poter riconoscere a tutti i costi la vita,

in ogni momento? Riconoscerla, e non soltanto

conoscerla, o soltanto viverla?

 

Il sesso dunque (ma senza alcuna volgarità o voyerismo). La prima – come si è già detto, sarà proprio la “serva” Emilia. Dopo di lei, toccherà al figlio Pietro, studente con inclinazioni artistiche, coetaneo del giovane Ospite, che prenderà così coscienza della sua diversità sessuale:

Questa diversità, mi si è rivelata d’improvviso:

fino a questo momento  essa era stata nascosta

dall’instabile ebbrezza che avevo raggiunto

(illudendomi, di poter tacere

tutto per sempre), con la tua presenza.

Chi mi ha reso diverso  (cosa meravigliosa!) mi è stato vicino.

E mi ha distratto così con l’intensità e il sapore

inesprimibile che il suo sesso

aveva dato alla mia vita.

Sarà poi la volta di Lucia, integerrima moglie e madre esemplare, fino ad allora rimasta barricata nel cattolico principio di fedeltà coniugale (e poi lascivamente alla ricerca dell’impossibile). Successivamente, toccherà a sua figlia Odetta, introversa e instabile studentessa  adoratrice della famiglia, portatrice di un culto un po’ incestuoso verso l'autorità paterna:

Tu mi hai riportato alla normalità.

Mi hai fatto trovare la soluzione giusta

(e benedetta) alla mia anima e al mio sesso.

La presenza miracolosa del tuo corpo

(che racchiude uno spirito troppo grande)

di giovane maschio e padre,

ha sciolto la mia selvaggia e pericolosa

paura di bambina… Ma adesso

in questo addio, non soltanto

riprecipito indietro,

ma vado ancora più indietro.

Il dolore è causa di una ricaduta

molto più grave del male

che ha preceduto la breve guarigione.

(…)

Cosa vuoi suggerirmi e propormi misteriosamente?

Forse qualcuno che possa sostituirti?

E questo qualcuno potrebbe essere qualcuno

che,  come te, sostituisca per me il padre,

il padre di Pietro, il Primo Padre?

E perché non addirittura mio padre stesso?

Vuoi forse suggerirmi, attraversi

terribili e mute parole di giustizia,

l’identificazione tra una verità,

sempre immaginabile e incestuosa,

con rutta l’intera realtà?

per finire poi con il capofamiglia, il Padre, l’uomo borghese per eccellenza, ghermito dalla stessa irrefrenabile smania di condivisione sessuale che con la serva, ha travolto anche tutti gli altri membri della sua famiglia.

 

Nella loro visione corporativamente individualistica, tutti i membri del nucleo famigliare ormai rivelatisi a se stessi, cercano così di ovviare all’assenza del loro oggetto d’amore, seguendo ciascuno la propria dannazione: Odetta, rescissa dal mondo e dagli affetti, si chiude in una paralisi isterica finendo addirittura in manicomio; Pietro cercherà invece la liberazione perdendo il senso delle sue azioni e di se stesso, il che lo porterà a cercare rifugio nella pittura ma senza più un briciolo di autostima (un “creatore” fallito “che non vale niente, che è un essere inferiore)ma che continua a vivere e a sporcare tele incolpando il mondo del suo deserto personale. Anche la monogama Lucia, smarrito il senso delle relazioni affettive familiari, si perderà  in una interminabile sequela di occasionali rapporti sessuali con giovani coetanei dell’Ospite adescati per la strada spingendosi così verso una “consumata” ninfomania:

Strano, il mio dolore ha gli accenti

della  naturalezza e della verità,

che si hanno normalmente nei momenti mortali della vita:

non sembra contestarla. Forse perché ciò

che in me è stato distrutto dal tuo amore

altro non è che la mia reputazione di borghese casta…

Eppure, mentre mi accarezzi, comprensivo e spietato,

mi chiedo: A cosa vuoi spingermi?

(…)

Vuoi dirmi, forse, ragazzo come sei, che è possibile

la sostituzione del tuo corpo e della tua anima

col corpo e con l’anima di un ragazzo che ti somigli?

Che i suoi occhi abbiano per me la luce

azzurrina della libidine mescolata alla tenerezza?

E le sue grosse mani il peso rozzo e venerante

di chi, accarezzando, fa male senza accorgersene?

Che sia, insomma, un uomo cresciuto sotto i miei occhi…

come un figlio… fino a diventare

il giovane barbaro che non vuole ostacoli alla sua monta?

E perché, se dev’essere, per età, come mio figlio

(la sua nudità il sacrilegio, la sua erezione l’impossibile),

perché non addirittura mio figlio?

Questa scelta assolutamente estrema -

e senza più alcuna possibilità di tornare indietro –

è l’unico atto che può salvare una vita

dalla mancanza di ogni interesse

e dal vuoto riempito di valori tutti sbagliati?

Una vergogna morale spinta fino al punto

di toccare e concedersi al ragazzo più ragazzo di tutti,

- il proprio figlio diventato uomo –

è  l’unico modo per rovesciare ogni falsa ingiustizia,

e vivere, sia pure ingiustamente nella verità?

Il Padre infine abdicherà al suo ruolo di sfruttatore di classe ripudiando se stesso e la sua privilegiata posizione di borghese. Come un novello Francesco d'Assisi, dopo essersi liberato di tutti i suoi beni donando la fabbrica ai suoi operai, si spoglierà anche dei suoi vestiti nella Stazione Centrale di Milano dopo una “nuova” tentazione rifiutata (quella di seguire una marchetta ammiccante  dentro i gabinetti) per poi determinarsi nudo, urlante  (l’agghiacciante urlo del finale[2]) errabondo e  solitario, in una specie di “morte civile”, che lo costringerà a trascinarsi disperatamente nel deserto del nulla (le laviche e pietrose pendici dell’Etna) senza più alcuna identità e direzione precisa da seguire.

A lui si contrappone, con un montaggio alternato, la vicenda di Emilia, l'unica a legare la presenza dell’Ospite alla sacralità (che la induce a chiedere perdono a Dio per averci fatto all’amore). Emilia lascia la famiglia dove lavorava per seguire la strada dell'ascesi e tornerà con la sua valigia di cartone, nel borgo rurale da cui proviene: lì, seduta accanto ad un muro, farà la sua penitenza cibandosi solo di ortiche, agognando il ritorno dell'Ospite, pur sapendo che non potrà tornare:

Ti saluto per ultima, proprio

cinque minuti prima di partire,

che già le valigie sono pronte

e il taxi è stato mandato a chiamare.

(…)

Ti saluto male, in fretta e per ultima,

perché io so che il tuo dolore è inconsolabile

e non ha nemmeno bisogno di consolazione.

(…)

Noi non abbiamo

scambiato parole, quasi gli altri

avessero una coscienza e tu no.

Invece, evidentemente, anche tu,

povera Emilia, ragazza di basso costo,

esclusa, spossessata dal mondo,

una coscienza ce l’hai.

Una coscienza senza parole.

E di conseguenza anche senza chiacchiere.

(…)

Per tutto questo

la rapidità e la mancanza di solennità

nei nostri saluti, non sono che l’indice

di una misteriosa complicità tra noi due.

Tu sarai l’unica a sapere, quando sarò partito,

che non tornerò mai più, e mi cercherai

dove dovrai cercarmi: non guarderai nemmeno

la strada per dove mi allontanerò e scomparirò,

e che tutti gli altri, invece, vedranno, stupiti,

come per la prima volta, piena di un senso nuovo,

in tutta la sua ricchezza e la sua bruttezza,

emergere nella coscienza.

Emilia percorrerà dunque fino in fondo la strada della perdita di sé, ma in senso totalmente inverso rispetto a quello che succede al Padre:  non avendo un'identità borghese da salvaguardare,  il suo gesto “sacrificale” sfocerà  nella donazione totale di se stessa. Dopo un piccolo miracolo e un'estasi che la porterà a sollevarsi sopra i tetti delle case, si farà dunque sotterrare viva sotto la terra di un cantiere (da interpretare come carne e fonte della vita) per versare – ormai totalmente distaccata dal mondo e dalle concretezze dell’esistenza - le sue lacrime di amore e sofferenza che daranno origine a una sorgente (e quindi anche a una speranza “redentiva”). 

 

 

Considerato un film eversivo e scandaloso nonostante la “castità” di una messa in scena fatta soprattutto di “segni” più che azioni esplicite (lo sguardo della cinepresa spesso ad altezza di cintura) e di ritorni (gli indumenti intimi e i pantaloni del primo ragazzo che Lucia si porta a letto posizionati sul pavimento esattamente come quelli lasciati dall’Ospite dopo l’amplesso con la donna) , di avvertimenti e di suggestioni (le anticipazioni del “deserto” finale scosso dal vento che  attraversano  con brevi inserimenti quasi subliminali tutta  la pellicola anticipando e preannunciando ogni svolta “drammatica” degli eventi; l’arrivo dei diseredati che assistono al “miracolo e alla levitazione di Emilia che volutamente ricorda  nella sua composizione “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo) deve sicuramente all’arditezza degli scottanti argomenti fortemente provocatori immessi nella storia (l’omosessualità, l’incesto e la ninfomania), il fatto  che alla sua uscita – come ho già accennato in apertura -, fu (deliberatamente?) frainteso sia da destra (com’era largamente prevedibile) ma anche da sinistra. Le critiche furono infatti feroci da ambedue i lati, da una parte per il modo “sconveniente” con cui veniva trattata la sessualità accostandola al “divino”  in un unicum difficilmente scindibile, e dall’altra (non da tutta, ma da una grossa fetta e soprattutto da quella più ortodossa) per un eccesso di “sconsiderato” e inopportuno misticismo che fu  la molla per bollarlo – in dissenso totale con le sue tesi - come un film fortemente reazionario frutto dei deliri di un intellettuale ossessionato dal sesso e dalle perversioni.

Come sempre è accaduto al cinema di Pasolini, il film fu soprattutto avversato dalla censura clericale dell’epoca. Il regista e il suo produttore, si beccarono addirittura una denuncia (con conseguente processo dal quale per fortuna  uscirono entrambi assolti) per oscenità e blasfemia, ma questo non pose fine alla loro odissea: sequestrato e poi dissequestrato, Teorema rischiò seriamente di diventare un “un invisibile”, ma poi vinse il buon senso e alla fine ottenne il nulla osta per essere regolarmente programmato in sala sia pure con il divieto per i minori.

La religiosità latente sotto la vernice empia e libertina che gli fu affibbiata, fu comunque pienamente recepita dalla giuria dell’OCIC (Office Catholique International du Cinema) che a Venezia gli assegnò il suo massimo premio, un riconoscimento fortemente deplorato da tutte le gerarchie ecclesiastiche ufficiali che fece indignare L’Osservatore Romano, scandalizzato da questo accostamento di sessualità e sacralità ritenuto immorale che irritò parecchio persino la stragrande maggioranza dei cattolici progressisto, cosa che in pratica segnò l’epilogo del loro effimero e provvisorio avvicinamento all’opera del regista poi fortunatamente in buona parte ripristinato in positivo.

 

Dal lato formale, è sostanzialmente di buona fattura la veste figurativa ricca com’è di momenti di intensa e poetica tensione. Interessante (e particolarmente funzionale proprio in veste narrativa) la colonna sonora di un alquanto insolito Ennio Morricone che alterna alcune piccole” ballate” gioiosamente sincopate dal taglio popolare ad altri momenti più intensi e stranianti in cui i suoni diventano stridenti e sembrano quasi voler ammiccare allo sperimentalismo sonoro  dissonante di Nono e di Berio. Il tutto, intervallato però  i9ntervallata però da frequenti inserimenti di brani (che prendono sempre più campo via via che si procede verso il finale) recuperati dal Requiem di Mozart, perfetti per sottolineare con  adeguato pathos i momenti più salienti della pellicola e la sacralità dell’assunto.

Oltre alla bellezza diafana di Terence Stamp particolarmente “funzionale” come ho già accennato prima, nel nutrito cast si distinguono soprattutto  le maiuscole prove di Laura Betti ( meritata Coppa Volpi quale migliore interprete femminile sempre alla Mostra di Venezia), di Silvana Mangano e di Massimo Girotti (appena un gradino sotto). Meno eclatanti invece quelle dei due giovani interpreti di Odetta (una innocua Anne Wiazemsky a quei tempi compagna di Godard) e di Pietro (uno scolorito e poco incisivo Andres José Cruz Soublette, forse l’elemento meno in palla di tutta la pellicola). Operano dignitosamente intorno a loro, il già ricordato Ninetto Davoli, Carlo De Mejo (il figlio di Alida Valli), Adele Cambria, Cesare Garboli (l’intervistatore del prologo), il poeta Alfonso Gatto e Susanna Pasolini.

 

[1] (…)Di cosa parlano i giovani del 1968 – coi capelli

barbarici e i vestiti edoardiani, di gusto

vagamente militare, e che coprono membri infelici come il mio,

se non di letteratura e di pittura? E questo

che cosa significa se non evocare dal fondo

più oscuro della piccola borghesia il Dio

sterminatore, che la colpisca ancora una volta

per colpe ancora maggiori di quelle maturate nel ’38?

Solo noi borghesi sappiamo essere teppisti,

e i giovani estremisti, scavalcano Marx e vestendosi

al mercato delle Pulci, non fanno altro che urlare

da generali e ingegneri contro generali e ingegneri.

E’ una lotta intestina.

Chi veramente morisse di consunzione,

vestito da mugik, non ancora sedicenne,

sarebbe il solo forse ad avere ragione.

Gli altri si scannano fra loro. (Pasolini, Teorema, pag. 152)

 

 

[2] (…) E perchè l’urlo, che, dopo qualche istante,

mi esce furente dalla gola,

non aggiunge nulla all’ambiguità che finora

ha dominato questo mio andare nel deserto?

E’ impossibile dire che razza di urlo

sia il mio: è vero che è terribile –

tanto da sfigurarmi i lineamenti

rendendoli simili a quelli di una bestia –

ma è anche, in qualche modo, gioioso,

tanto da ridurmi come un bambino.

E’ un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno

o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo.

E’ un urlo che vuol far sapere,

in questo luogo disabitato, che io esisto,

oppure, che non soltanto esisto,

ma che so. E’ un urlo

in cui in fondo all’ansia

si sente qualche vile accenno di speranza;

oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda,

dentro a cui risuona, pura, la disperazione.

Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa

questo mio urlo voglia significare,

esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine. (Pasolini, Teorema, pag. 199/200)

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