Annunciato da un telegramma (il postino, Angelo, è Ninetto Davoli, col suo solito candore macchiettistico sopra le righe), arriva inspiegabilmente ospite in una villa della periferia milanese uno strano visitatore che viene accolto come se fosse atteso da tutti (L’annunciazione dell’Angelo, ingenera vagamente l’idea che il visitatore devastante sia un essere misteriosamente speciale, dio, Gesù o Dioniso).
Si tratta di un bel giovanottone enigmatico, affascinante, elegante che, da quel che legge, si presume possa essere uno studente di ingegneria che ama le poesie struggenti di Arthur Rimbeau.
Il clima che regna in casa improvvisamente cambia, si fa più teso, confusamente inquieto, denso: la silenziosa presenza dell’Ospite (Terence Stamp) turba profondamente tutti, a partire dalla cameriera Emilia (Laura Betti), e poi della padrona di casa. Lucia (SilvanaMangano), del marito industriale (Massimo Girotti), del figlio (Cruz Soblette) e della figlia Odette (Wiazemsky).
Tutti sono misteriosamente attratti e stregati dalla sua silenziosa indifferenza, dalla sua magnetica estraneità:
prima la cameriera che nel parco lo osserva con desiderio e, per resistere alla tentazione che l’assale (o forse presa da un attacco di sconforto per la consapevolezza dell’impossibilità di averlo), sconvolta da una muta ossessione isterica, si precipita in casa e tenta di suicidarsi con la canna del gas (ma viene salvata dall’Ospite stesso che rivela un intuito incomprensibile);
poi è la volta di Pietro, il ragazzo di casa, liceale (rosso di capelli, come Verlaine, l’amante di Rimbeau), che divide la camera con l’Ospite e tenta un approccio maldestro mentre l’Ospite dorme: l’Ospite si sveglia, il ragazzo viene preso da una crisi isterica forse perché prende improvvisamente coscienza della sua inclinazione omosessuale; e questo induce l’Ospite a confortarlo con estrema dolce comprensione (il giorno dopo vediamo i due giovani che, in camera, sfogliano un libro con le riproduzioni dei quadri dell’inquietante Francis Bacon);
la terza vittima della seduzione è l’apparentemente algida padrona di casa che spia l’Ospite nel parco, si ritira in casa, si spoglia, attira in qualche modo l’Ospite in terrazza. poi si sposta in camera, …;
nemmeno il compassato marito viene risparmiato da questo inspiegabile contagio erotico che emana dall’Ospite: l’uomo si sveglia nel pieno della notte, si aggira inquieto per casa e nel parco, torna in camera e cade in uno stato di prostrazione che richiede l’intervento dei medici e le attente sollecitudini di tutta la famiglia, Ospite compreso;
infine tocca alla figlia che, sbrigativamente, senza apparenti patemi, se lo tira in camera per sfogliare un album di fotografie e lo induce a sedurla.
In ogni caso, nonostante le apparenze, l’Ospite non è seduttore attivo, ma emana calore quasi paterno, assecondante, richiami teneri, segnali di comprensione empatica, quasi volesse aiutare i suoi seduttori incerti a prendere consapevolezza di sè, a superare la falsa percezione della loro intima natura, a ritrovare una loro inconsapevole e inconfessata autenticità.
L’Ospite inatteso, così come è arrivato, ad un certo punto se ne va, proprio come l’Adorabile descritto in una poesia di Rimbaud che “È venuto, se n’è andato e forse non tornerà mai più”.
E tutti i miracolati del suo fascino sono lì a salutarlo, muti, ognuno col suo occulto cruccio, col suo intimo tormento, con la sua nuova epifania; tutti col loro misterioso strazio, intimamente incomprensibile, esteriormente inconfessabile.
E per ognuno la vita subisce una immediata conversione a U, una metamorfosi esistenziale, quasi religiosa, un cambiamento radicale, una trasmutazione, una disgregazione:
Emilia, la cameriera silenziosamente disperata se ne torna nella cascina della profonda pianura da cui è venuta, si mette seduta su un cordolo di pietra che corre come una panchina lungo il muro interno di una vastissima cascina e non si schioda più da lì, rifiutando di comunicare con i suoi familiari, respingendo il cibo, ricusando gli inviti alla ragionevolezza, inebetita, abulica, catatonica; si nutre di zuppa di ortiche, porta il suo ascetismo sull’orlo del misticismo isterico fino a levitare sui tetti della cascina e poi si fa seppellire, non per morire ma per inondare la terra con lacrime “sorgenti di vita”;
Odette, la ragazza, regredisce in svagati sogni infantili (saltella sui fregi del selciato, gioca nel prato, rovista fra i ricordi conservati in un baule in soffitta) poi va in catalessi, viene dichiarata incurabile dal medico di famiglia (il poeta Alfonso Gatto) e ricoverata in una clinica psichiatrica per una forma grave di autismo che le induce una paralisi isterica;
il ragazzo esce di casa, prende una mansarda in città, cerca la sua inclinazione artistica nella pittura, tenta tormentati sperimentalismi, indaga modalità espressive che descrivano in qualche modo la sua inesprimibile inquietudine (“nessuno - dice - deve capire che l’autore non capisce niente”);
La rigida Lucia, austera come una monaca, va in cerca di ragazzi e di amplessi casuali;
il rigido pater familias, nella stazione di Milano, in mezzo alla folla indaffarata, si denuda come san Francesco davanti al padre in Assisi, decide, proprio come san Francesco, di spogliarsi di ogni bene lasciando la fabbrica agli operai, poi se ne va per montagne sabbiose e deserte, aride e aperte al vento (che ricorrono come siparietti nel corso del film, come a voler rappresentare le aridità interiori, la desolazione delle anime, lo smarrimento delle menti). E urla al vento la sua disperazione o forse grida alla liberazione da maschere e coazioni spersonalizzanti.
Un film contorto, sofferto, straziante.
Così come era contorto, sofferente e straziato il suo autore.
Confuso, anche, come sono confuse la nostra esistenza, la realtà che vediamo e le impalcature che costruiamo per reggerci o per capire.
Un film pesantemente concettuale, ideologicamente arduo, con passaggi al limite del paradosso, spesso incomprensibili (perché trattano di nodi inesplicabili).
Un’opera densa di concetti e vertiginosa poesia, accompagnata da immagini stupefacenti e dello splendido Requiem di Mozart.
Le osticità e le complessità di Teorema - e il suo valore - sono testimoniati anche dal fatto che il film meritò un premio dalla giuria dell’Ufficio Cattolico Internazionale del Cinema e - nello stesso tempo - venne sequestrato per oscenità.
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