Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Sulla tragedia della Shoah sono stati realizzato molti film, ma la prova migliore sia a livello tecnico che artistico l’ha offerta Steven Spielberg. Il grande autore coltiva, oltre alla professione cinematografica, una sola ragione di esistenza: non dimenticare coloro che morirono nei lager nazisti. Memore della lezione di Adorno, come si può pensare di pensare Auschwitz, Spielberg non crea un film a tesi, ma cerca di tradurre in celluloide ciò che fu. E non s’inserisce nel filone stile Holocaust, il serial sulle barbarie nei campi di sterminio, ossia entrare nel terribile microcosmo del gulag ed illustrare le storie dei deportati.
Prende ad esempio la storia di Oskar Schindler, un industriale tedesco in affari coi nazisti, che inizialmente sfrutta gli ebrei come lavoratori, al solo fine di accrescere le proprie ricchezze. Quando si rende conto che la misura è colma, pur continuando a mantenere i suoi intrighi economici con i seguaci di Hitler, decide di salvare da una morte certa la maggior parte degli innocenti: con l’aiuto del suo contabile, il quale stila una lista di salvabili (“fuori dalla lista c’è l’abisso”), ne riuscirà a liberare 1100, ma al costo di dileguarsi nell’ombra.
In questo film spettacolare eppure poetico ed intimo, Spielberg ci mette l’anima, e, servendosi della perfetta sceneggiatura di Steven Zaillan, realizza un racconto epico nel quale entrano in contatto storia e quotidiano, dove la Storia è parte integrante della Vita in quanto è la Vita a fare la Storia. Schindler’s list, il capolavoro di Spielberg, anche perché il film più sentito ed ispirato (così come lo era E.T., ma con istanze diverse), è “larger than life”, più grande della vita. Mai esibendo il dolore gratuito, che spesso rischia il patetico, gira tra i ghetti, nei gulag con la discrezione di chi sente il bisogno di testimoniare qualcosa di indicibile, per non dimenticare.
Non si riesce a pensare di pensare Auschwitz, ma il tentativo di ricreare l’atmosfera tesa e assurda di quei luoghi centra il bersaglio. Anche grazie a particolari e a scene che lasciano il segno indiscutibilmente, dalle valige dei deportati accatastate nei magazzini della stazione al pesto sangue fuoriuscente dai capi degli uccisi che discende mescolandosi nella neve candida, dai gioielli nascosti nelle molliche di pane al sangue usato come trucco facciale dalle deportate, passando per i drammatici rastrellamenti, il bambino che cerca un posto nel quale nascondersi non trovandolo mai. Fino a quella bambina dal cappottino rosso che cerca di sfuggire al rastrellamento e che poi verrà ritrovata morta su una carretta.
La scelta di rappresentare tutto in un bianco nero freddo e nebbioso è una scelta razionale che sta a sottolineare la tragicità e il reale pathos dell’opera. E quel cappottino rosso che riesce a notare solo Schindler vuole comunicare la giustezza del personaggio. E le fiamme accese per festeggiare il sabato, il giorno sacro degli ebrei, pure quelle sono struggenti atti poetici. Solo il prologo e l’epilogo sono degni del colore, il primo perché non ancora si entra nel tragedia, il secondo perché la speranza donata da quel “giusto” ha restituito la fiducia di tornare a vivere. I tre personaggi principali sono stati affidati a tre attori europei, forse anche perché più coinvolti nella vicenda in quanto abitanti del continente nel quale sono avvenuti i fatti.
L’ottimo Liam Neeson (irlandese) disegna finemente Schindler, sottolineando il conflitto interiore che domina il personaggio. Ralph Fiennes (inglese) è sublime nei panni del folle, rozzo, paranoico comandante del gulag. Ma è memorabile il contabile ebreo polacco che Ben Kingsley (anche lui anglosassone) rappresenta giocando di sottrazione, calibrando perfettamente emotività e razionalità. John Williams compone partiture eccelse. Commovente, coinvolgente, emozionante, struggente. L’ultima scena, a colori, è da non perdere. Indimenticabile.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta