Regia di Luigi Zampa vedi scheda film
Rivisto a sessant’anni di distanza, il miglior film di uno dei più onesti artigiani del nostro cinema, rischia di passare perfino per profetico. C’è un giudice istruttore che mette il naso in faccende sporche che coinvolgono i gentiluomini della città di Napoli (più sali in alto, più la puzza aumenta), e che a causa della sua pignola e retta azione giudiziaria viene additato dall’opinione pubblica come un magistrato in cerca di popolarità. Vi ricorda qualcosa? Sembra il soggetto della cronaca contemporanea.
E invece il film rielabora un fattaccio di nera dei primi del novecento (il famoso caso Cuocolo, qui divenuto Ruotolo) avvenuto nel capoluogo partenopeo, in cui ci sono di mezzo prostitute, delinquenti, mediatori, malfattori, notabili (e ancora si potrebbe pensare ad un film dei nostri tempi, mentre continuiamo sempre a parlare del capolavoro di Luigi Zampa, datato 1952), tutti assieme per salvaguardare l’onore, messo in pericolo a causa di un tradimento. Proprio Tradimento si chiama la canzone che canta una delle ragazze implicate, ed è la chiave di volta di cui si serve il giudice istruttore Antonio Spicacci per risolvere l’intricatissima vicenda.
Primo film del cinema sonoro italiano a nominare la camorra, Processo alla città ha un titolo che dice tutto – come fa notare il delegato Perrone, pratica spalla di Spicacci nelle indagini, il giudice si ritroverebbe a processare l’intera Napoli per quanto in quella realtà così assurdamente reale la legge degli uomini non corrisponde a quella della giustizia – e sa essere molte cose: un atto d’accusa documentato, scrupoloso e preciso sul potere malavitoso che sopprime i deboli come l’ignaro Luigi Esposito, colpevole di comodo, o lo sfruttato don Filippetti (e si sente dietro la mano di quello che sarà il nostro principale regista di cinema civile e di denuncia, quel Francesco Rosi che dieci anni dopo avrebbe diretto Le mani sulla città sempre su Napoli e i suoi poteri); un giallo teso ed appassionante che riesce a mantenere un ritmo degno di un film americano.
Una splendida commistione tra il cinema popolare (i caratteristi, da Tina Pica a Agostino Salvietti passando per Dante Maggio, Nino Vingelli, Vittoria Crispo e tanti altri, provengono dalla sceneggiata o dal teatro dialettale), il cinema di denuncia e il cinema d’industria (dietro c’è la democristiana Film Costellazione diretta da Turi Vasile, nonostante le note simpatie comuniste di Zampa, Rosi ed Ettore Giannini, l’altro soggettista che avrebbe dovuto realizzare il film dietro la macchina da presa – la sceneggiatura fu poi scritta dall’affidabilissima Suso Cecchi D’Amico assieme a Diego Fabbri, Vasile, Giannini e Zampa).
Strutturato fondamentalmente in tre atti (le prime indagini, la trasferta a Pozzuoli e la risoluzione), ha una serie di sequenze memorabili, tra le quali non si possono non citare le rivelazioni del pescatore di fronte alla tavolata degli ansiosi congiurati e le scene in cui compare il cattivo più cattivo della storia, impersonato da un inquietante Eduardo Giannelli. Amedeo Nazzari è semplicemente perfetto in un ruolo che gli è congeniale (un eroe irreprensibile di cuore e di principi che non guarda in faccia a nessuno pur di far valere la giustizia); Paolo Stoppa, da par suo, conferma ancora una volta di essere stato un gigante della recitazione. Tanto per capirne ulteriormente il valore seminale, ad aiutare Zampa in sede di regia c’erano Mauro Bolognini e Nanni Loy, più il già citato Rosi: che volete di più?
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