Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film
L’australiano Scott Hastings è un fantasioso campione di ballo, ma la sua creatività e il suo carattere determinato lo spingono a inserire nelle sue esecuzioni alcune varianti che irritano e sconcertano i conservatori tradizionalisti, in primis sua madre (campionessa di liscio prima di lui) e poi i maestri della federazione che invocano regole e regolamenti (ma truccano la gara) perché non vogliono giocarsi l’opportunità di portare a casa il primo premio di una importante gara internazionale (la Pan-Pacific Grand Prix). Perfino la partner lo pianta.
Ma lui tira dritto, convinto che il ballo è passione e istinto (Garcia Lorca parlerebbe di duende, il demone sacro che aggiunge il sangue, l’essenza emotiva e indicibile dell’atto artistico, sia esso danza, musica, pittura o poesia): trova un’altra partner (Fran, di famiglia spagnola) che lo incoraggia a vincere le paure (“Vivir con miedo es como vivir a medias: Vivere con paura è come vivere a metà:”) e a partecipare alla gara (con un travolgente paso dople ovviamente) nella quale vince, anzi trionfa.
La storiella è un po’ scontata col suo prevedibile andamento che presenta molti stereotipi come la coppia scombinata che poi si consolida (grazie anche alla metamorfosi della bruttina che rivela attitudini e attraenze nascoste); racconta di gelosie e i tradimenti, descrive la gara e le rivalità che scatena, scopre scheletri negli armadi, ridicolizza i conservatori delle tradizioni (il tavolo della giuria, il parruccone col parrucchino, le ipocrisie), esalta la trasgressione e sbeffeggi gli ortodossi del liscio, scivola nell’inevitabile il lieto fine.
E anche l’argomento - il ballo come metafora della vita o della società - ha precedenti nobilissimi: basti pensare allo spietato Non si uccidono così anche i cavalli? (di Sydney Pollack, del 1969) o all’originalissimo Le bal - Ballando ballando (di EttoreScola, del1983). E Hastings ci offre un anticipo dei suoi due film successivi giocati uno sugli intrighi di Romeo + Giulietta (1996) e l’altro sulle coreografie melò di Moulin rouge (2001).
Il regista esegue il suo compitino con dignità, garbo, capacità di coinvolgimento. Si diverte e ci diverte (nel senso letterale del termine che significa distrarre lo spirito da pensieri seri o preoccupati).
È abile nel tratteggiare i personaggi di contorno.
La trama prende qualche complicazionedi troppo quando si perde a raccontare l’improbabile passato del padre che alla fine non risulta essere quell’ameba remissiva che pareva, bistrattato dalla moglie fino ad apparirci ammirabile nel suo martirio. E rasenta il misoginismo dando alle figure dei due padri un ruolo determinante nell’influenzare le scelte etiche e tecniche della coppia protagonista.
La musica è gradevole, le riprese scivolano via lisce come la fluidità dei ballerini, li colori sono accesi come si addice agli sfarzi campagnoli di fiere e balli; acconciature e trucchi pacchiani caricano l’insieme di ironia barocca; la favoletta risulta perfino emozionante, oltre che edificante: senza il timore di apparire kitsch.
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