Regia di Peter Yates vedi scheda film
Il ’68, un po’ in tutto il mondo è la data spartiacque del novecento. Cinematograficamente sono diversi i film che spezzano definitivamente col passato, uno su tutti “La Notte dei Morti Viventi” di George Romero. Con “Bullitt”, invece, Peter Yates raggiunge l’apice di un’estetica che per tutti i ’70 sarà la cifra autoriale del più bel cinema del mondo: quello americano che va dal ’67 di “Bonnie and Clyde” al ’75 di “Nashville”, e che io chiamo il Controcinema americano dei ’70. “Bullitt” s’inserisce quindi in discorso non solo estetico, ma anche contenutistico. Nei termini in cui è la forma stessa ad essere il contenuto del film. Infatti la pellicola è molto silenziosa, rarefatta, secca, distante dallo stettatore, e tutte queste sensibilità estetiche confluisco nella straordinaria e sottrattiva recitazione di Steve McQueen. Una matrice, quella di Yates, che servirà a molto cinema a venire e che nasce dai primi esempi di “distacco realista, ma autoriale” rintracciabili nel capolavoro di Arthur Penn: “Bonnie and Clyde”, film che valse la prima nomination agli Oscar di Gene Hackman.
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