Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Luca Guadagnino è il regista italiano più americano che ci sia. Con buona pace del caro Paolo (ndr. Sorrentino) che si affanna a fare breccia nel cuore dei magnati della mecca d’oltreoceano, il collega è senza dubbio più dotato. Affascinata dal trailer di A Bigger Splash, non essendo poi riuscita a vederlo al cinema, è una delle poche pellicole che, nella mia vita, mi sono presa la briga di recuperare, nonostante la critica arcigna. Laddove il senso di incompiuto è palese, sono però già chiaramente espresse le capacità di visione, che il regista siciliano gestisce con leggera maestria, quasi come se fosse normale avere un occhio artistico. È certamente indubbio che ad A Bigger Splash manchi qualcosa e, dopo la visione dell’ultima sua opera da Oscar (è uno dei nove candidati come miglior film), quella sua precedente sembra più che altro il rodaggio di strumenti posseduti ma non correttamente maneggiati.
In quella che è una lista sentimentalmente fredda, Chiamami col tuo nome, è l’eccezione che cercavo. Possiede proprio quel “qualcosa in più” che manca anche a La forma dell’acqua. Chiamatemi sentimentale ma finché il vuoto non occupa il mio essere, finché un film non è capace di entrarmi dentro, io non riesco a considerarlo davvero un capolavoro. Mi spiace non essere riuscita a definire tale l’ultima opera, comunque notevole, di Del Toro (l’ho sempre apprezzato e continuerò a farlo) ma Guadagnino, nella sua trasposizione del romanzo omonimo di André Aciman, ha racchiuso l’essenza della settima arte: lasciare allo spettatore qualcosa.
Il suo modo delicato e sommesso di raccontare la storia d’amore tra il giovanissimo Elio e il più maturo Oliver risulta piacevole dalle prime inquadrature fino ai titoli di coda. Mai volgare, piuttosto semplice e altrettanto intensa la narrazione di un desiderio che diventa sentimento ancor prima di esserlo davvero. La difficoltà di accettazione, non solo dei due uomini coinvolti in prima persona, ma principalmente dall’ambiente che li circonda, in quell’Italia del nord di inizio anni ’80, dove non ci si adatta al cambiamento percepito come pericoloso per l’integrità morale.
Senz’altro bravo Armie Hammer nei panni del custode di un desiderio difficile da esaudire, ma la nota di merito va interamente a Timothée Chalamet. La naturalezza con cui riesce a personificare questo giovane artista con la spiccata voglia di aprirsi alla vita, che studia, scrive canzoni, legge e si aggrappa ad ogni forma d’arte che gli è possibile,pur di esprimere il suo estroso essere. Con quell’aria un po’ bohemien e il coraggio di essere se stesso, consente allo spettatore di carpire la potenza di quel qualcosa che intercede tra i due uomini.
Fotografia, musica, ambientazione. Tre aspetti fondamentali di una pellicola che quasi mai riescono a coesistere con la medesima intensità; eppure Guadagnino sembra essere riuscito a trovare il giusto connubio tra le tre parti. L’utilizzo dei colori caldi ci catapulta in questa splendida location che sembra germogliare nell’estate italiana per appassire poi nel grigio dell’inverno che prevale nel finale del film. La musica, utilizzata come sfilo conduttore dal regista che ha chiesto all’autore Sufjan Stevens di comporre appositamente delle canzoni per l’intensa colonna sonora. Oltre a diffondere il calore per l’intera durata, contribuisce all’effetto emozionale garantito dalla visione della pellicola.
La sensazione che si prova quando lo schermo diventa buio è paragonabile come intensità, alla soddisfazione che si prova nel vedere un quadro finito. La stessa, suppongo, che un artista prova quando si rende conto che la sua mano sta accompagnando l’ultima pennellata prima che la sua opera possa definirsi compiuta.
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