Regia di Luca Guadagnino vedi scheda film
Il cinema di Luca Guadagnino, insieme a quello di Garrone, è il cinema del nuovo secolo che più riesce a incuriosirmi e gratificarmi. L’esperienza estetica e intellettuale della visione cinematografica trovano in Guadagnino una delle sue migliori sintesi. Già in The Protagonist (1999) si assisteva alla disarticolazione delle forme canoniche in un gioco tra generi sorretto però da un’idea indipendente che ne è, a mio parere, anche il suo limite principale. Mentre invece, con il discusso e poco compreso Melissa P. (2005) Guadagnino inizia un percorso estetico e narrativo di erotizzazione del mondo che culmina poco dopo con il trionfo di Io sono l’amore (2009) dove si palesa l’immaginario intimo del regista. Un immaginario erotico, rurale, alimentare, animale e adolescenziale – anche borghese secondo lo stesso Guadagnino – che continua nella sua rappresentazione, tra il magico e il reale, del desiderio. Il piacere del desiderio, gli oggetti di desiderio, le perturbazioni del desiderio, le sue ossessioni e compulsioni.
E così, desiderio, desiderato e desiderante si incrociano pure nei titoli successivi. Il torrido, il tema dell’estate seduttrice e disinibitoria, il desiderio del corpo, i suoi mutamenti, tornano con A Bigger Splash (2015) e Chiamami col tuo nome (2017). In entrambi, come in Io sono l’amore, sono fondamentali la natura, la bella stagione e il cibo per innescare la pulsione che erotizza il mondo. Se la Pantelleria in cui Tilda Swinton rivive La piscina di Jacques Deray (1969) nella sua versione pop, innesca il disturbo del piacere e il piacere del disturbo dovuto alla presenza dei suoi due amori, la provincia cremasca – e anche lodigiana – diventa lo scenario preraffaellita in cui si muovono i personaggi di Elio e Oliver. La seduzione della luce, della penombra, della natura e della bellezza. La bellezza che presenzia costantemente l’iconografia del film, dall’elegante e decadente casa dei Perlman ai muretti di mattone rosso delle cascine, dai tavolini di un bar in piazza ai campi di grano, ai laghetti e a ogni scorcio di natura nascosta dove Elio e Oliver si avvicinano e scoprono un’attrazione proibita che in quanto tale non possono rifiutare.
Chi è cresciuto in pianura e ha passato l’infanzia e l’adolescenza in bici su quelle strette lingue di asfalto che serpeggiano tra campi e rogge spopolate, abbandonate da animali e contadini, e su cui si accanisce la canicola estiva, sa perfettamente cos’è l’erotismo e sa esattamente come il proprio corpo si abbandoni alle voluttà della stagione. La scelta di spostare la vicenda dalla Bordighera del 1982 alla Crema del 1987 risiede quindi nei ricordi giovanili dello stesso regista e nell’immaginario che possiede da sempre l’elemento padano, una sorta di southern capovolto. Tant’è che Chiamami col tuo nome, nonostante sia per il momento il meno aggressivo dei film di Guadagnino, è un melodramma romantico, intriso di passione, voluttà e fatalismo. Quasi un gotico se non fosse per l’apparato pop e l’assenza del soprannaturale – anche se certi passaggi possono ascriversi al realismo magico, seppur più per l’atmosfera rievocata che per gli elementi tematici.
Poco importa se è una storia d’amore omosessuale, anche perché in questo senso ha fatto meglio Ang Lee con Brokeback Mountain (2005). Quello che importa in Chiamami col tuo nome è la scoperta di un desiderio e il piacere di abbandonarsi a questo desiderio. Elio prima desidera Oliver, poi lo seduce, poi lo rifiuta, poi lo riprende. La turba adolescente non poteva avere altra modulazione, altra incertezza e nemmeno altra tensione. Stesso tormento che soggiace all’idea stessa di creazione artistica. Elio è l’artista, il pianista, il musico, il poeta, mentre Oliver è l’oggetto artistico. La figura dell’adolescente come metafora dell’artista non è certo nuova – basti ricordarsi l’Alberto Pisani dello scapigliato Carlo Alberto Pisani Dossi, per restare in tematica padana. Così, il corpo e la sensualità degli esistenti deflagrano la linearità della vita del giovane artista e aprono finestre su mondi fino ad allora sconosciuti, scostano tende che occultavano peccati e sollevano cortine di rovi e frasche che svelano luoghi intimi e inaccessibili. Il locus amoenus incontra il mito del giovinetto, il puer della mitologia classica, richiamata dai bronzi ripescati nel Garda e svelano così l’intenzione autoriale di fondo della pellicola: la bellezza. Quella acerba del giovane Elio, fisico del ruolo perfetto, magro, secco, imberbe, e quella adulta di Oliver con il suo corpo strutturato, atletico e disinvolto anche se non propriamente virile. Ma anche la bellezza dei luoghi, delle arti, delle architetture, delle facce ruspanti che popolano il film. Un film purtroppo imperfetto.
Di Guadagnino infatti ho sempre apprezzato quell’aggressività visiva che lui stesso ha detto di aver tolto da Chiamami col tuo nome. Inoltre ha depurato il film dalle tante scene di nudo pensate da James Ivory. Una resa autoriale? Sembrerebbe. Anche perché l’onestà intellettuale deve arrivare prima delle ragioni di mercato i cui standard sarebbero alla base delle scelte fatte dal regista, ammesse da lui stesso durante la conferenza stampa al New York Film Festival del 2017.
Credo infatti, e continuerò a sostenere, che la forma è il contenuto, e se il contenuto parla di tensioni sessuali, di corpi e desideri carnali la sua forma deve necessariamente essere il corpo, il nudo, finanche la sessualità esplicita. La castrazione sofferta dal film non rende onore né al regista né all’arte cinematografica. Larry Clark avrebbe fatto di meglio. Lo stesso Bertolucci, evocato più volte come convitato di pietra tra i fantasmi della pianura, avrebbe fatto di meglio – basti guardare I sognatori (2003) o lo stesso Novecento (1976).
Perfetto Timothée Chalamet, i cui sguardi e i cui scarti recitativi fanno la differenza in un cast per lo più monocorde; meno incisivo Armie Hammer che, attore perfetto per il ruolo di Oliver secondo Guadagnino, è invece per chi scrive un chiaro esempio di miscasting. Dopotutto è stato proprio Armie Hammer a rifiutare inizialmente il ruolo per le tante scene di nudo, ma Guadagnino pur di averlo dopo lunghi corteggiamenti che partono fin da A bigger Splash, avrà acconsentito a questa infelice virata autoriale. Per quanto mi riguarda, se un attore non vuole fare scene di nudo, se ne cerca un altro.
Chiamami col tuo nome resta comunque un bellissimo film, esteticamente imbattibile, evocativo e nostalgico per chi ha già passato sia l’età di Elio che quella di Oliver e per chi le sta vivendo o le vivrà, siano loro etero o omosessuali, non importa, questi sono dettagli che interessano solo la critica omosessuale che davanti alla resa autoriale del film non dicono nulla in nome del vanto di categoria; un film che, paradossalmente, si farà ricordare per la masturbazione con la pesca, che va ad aggiungersi ad altri simili motivi erotico-masturbatorio-alimentari come il burro di Ultimo tango a Parigi – ancora Bertolucci – (1979), la torta di mele di American Pie (1999) e il cocomero di Stella cadente (2014), ma che perde la sfida più grande: quella di utilizzare fino in fondo la vocazione rivoluzionaria del racconto per immagini. Il significato è il desiderio sessuale, carnale, corporale? Sì. Quindi, il suo diretto significante è il corpo, la sessualità, la fisicità. Se Guadagnino avesse osato di più avrei potuto chiosare la visione di Chiamami col tuo nome come avrebbe fatto Zucchero Sugar Fornaciari “…i miei ricordi di seghe, fossi e rane” (You Make Me Feel Loved, Bluesugar, 1998), ma non è così.
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