Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Angeli e boia, suore e guerrieri, signorotti e streghe: la varietà del fitto intreccio di storie di Magnificat rappresenta fedelmente il caos che dominava le vite terrene in quel 926, anno in cui la religione era ancora contaminata pesantemente, se non dominata addirittura, dalla superstizione. Come un Decameron (tre secoli prima) privo di ironia ed erotismo: una violenta tragedia. Avati si conferma autore curioso e poliedrico e, fra una preghiera ed una tortura, ci trasporta su una sua sceneggiatura nel medioevo: atrocità ovunque, a ricordarci l'innata passione che il regista bolognese nutre verso l'horror, ma qui realmente necessarie per spiegare il clima di terrore in cui l'uomo viveva a quei tempi. Come spesso capita nei film di Avati troviamo un comico in una parte impegnata: qui c'è Lucio Salis, il sardo del televisivo Drive in (capitto mi hai?) di una decina d'anni precedente, che se la cava bene come uomo condannato a morte; in seguito il regista affiderà ruoli drammatici o comunque 'seri', fuori da ogni comicità, anche a Boldi, Marcorè, Albanese, Greggio, sempre con buoni risultati. Nel complesso Magnificat risulta piuttosto pesante, ma date le tematiche non ci si poteva aspettare molto di diverso, ed è ad ogni modo la testimonianza delle ottime capacità di Avati alle prese con un cinema non usuale per lui.
Insieme di personaggi e di situazioni che si svolgono nella settimana della Pasqua dell'anno 926, quando la religione cristiana era fortemente ancorata alla superstizione e la morte un fatto naturale e quotidiano.
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