Regia di Sergio Leone vedi scheda film
Morandini vs Mereghetti, il Falotico non dà retta a nessuno. Dopo molti ripensamenti, ecco il suo finale verdetto irreversibile, ultimo! Questo è, questo sarà, così sia scritto e così sia fatto. Capolavoro sconsiderato. Se non vi va bene, andate a cagare.
Ebbene, prima o poi dovevamo imbatterci nella recensione di uno dei film più amati, venerati e al contempo più odiati, apertamente contestati di tutti i tempi, ovvero l’ultima opus di Sergio Leone, cioè C’era una volta in America (Once Upon a Time in America). Pellicola dalla durata spropositata della quale, nel corso degli anni, in seguito a numerosi restauri, aggiunta di scene eliminate e poi recuperate nella postuma director’s cut, furono approntate varie versioni. Ed è dunque pressoché, oramai impossibile stabilire con certezza quale sia la versione definitiva col minutaggio, potremmo dire, giusto e precisamente allineato al volere di Leone. Il quale, all’epoca dell’uscita nelle sale statunitensi di C’era una volta in America, peraltro scese a un grave compromesso col produttore Arnon Milchan. Quest’ultimo, difatti, per il mercato nordamericano, erroneamente convinto che, nella sua versione di circa quattro ore di durata, C’era una volta in America si sarebbe gigantescamente rivelata una pellicola improponibile per le esigenze del grande pubblico, ne ridusse il minutaggio drasticamente, dimezzandolo. La sua scelta, sbagliata in modo titanico, poco avveduta, decisamente avventata e campata per aria, sortì nocivamente e paradossalmente l’effetto contrario e, a dispetto dei suoi calcoli e delle sue insane aspettative poco previdenti e scarsamente lungimiranti, basatesi per l’appunto sulle sue frettolose deduzioni fallimentari, fece sì che C’era una volta in America incorresse in un flop devastante. Poiché, malgrado a tutt’oggi sia reputata una pellicola eccelsa, adorata da una moltitudine di cinefili dei più pregiati, ai tempi della sua ufficiale release, C’era una volta in America fu largamente snobbato al botteghino e non piacque molto alla Critica. Tanto da venir ignorato completamente agli Oscar. Però, a essere più precisi e come sopra da noi già leggermente accennatovi, non molti sono tuttora concordi unanimemente sull’intoccabile valore effettivo, da noi invece ritenuto altissimo, di C’era una volta in America. In primis, il critico Paolo Mereghetti, irriducibilmente sicuro che tale opera di Leone non sia assolutamente il capolavoro epico, magnificente e artisticamente mastodontico che molti credono. Mereghetti discosta in maniera diametralmente opposta rispetto invece allo scomparso Morando Morandini che, nel suo dizionario dei film, or ereditato dalle figlie, assegnò a C’era una volta in America la valutazione, in stellette, massima. Cioè 5. Valutazione lasciata inalterata. Attenendoci fedelmente alla sua sintetica eppur estremamente centrata ed esaustiva disamina recensoria, perfettamente sintetizzatrice della sua ingarbugliata e, sinceramente, indescrivibile trama pluristratificata ed enormemente complessa, ve la estrarremo qui sotto. Poiché ci pare del tutto pertinente e totalmente aderente al nostro giudizio che reputiamo identico al suo. Di cui sottoscriviamo pienamente, senza il minimo dubbio in merito, ogni sua singola parola elogiativa, giustamente: «Dal romanzo Mano armata (1983) di Harry Grey. L’ultimo film di Leone ha la struttura narrativa di un labirinto alla Borges, un giardino dai sentieri incrociati, una nuova confutazione del tempo. La sua vicenda abbraccia un arco di quasi mezzo secolo, diviso in 3 momenti: 1922-23, i protagonisti sono ragazzini, angeli dalla faccia sporca alla dura scuola della strada nel Lower East Side di New York; 1932-33, sono diventati una banda di giovani gangster; 1968, Noodles (De Niro), come emergendo dalla nebbia del passato, ritorna a New York alla ricerca del tempo perduto. Se il 1922 e il 1932 sono flashback rispetto al 1968, il 1968 è un flashforward rispetto al 1933: il Noodles anziano è una proiezione di quel che Noodles, allucinato dall’oppio, ha sognato nella fumeria. Il presente non esiste: è una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria. Alle sconnessioni temporali, corrispondono le dilatazioni dello spazio: con sapienti incastri tra esterni autentici ed esterni ricostruiti in teatro, Leone accompagna lo spettatore in un viaggio attraverso l’America metropolitana (e la storia del cinema su quell’America) che è reale e favoloso, archeologico e rituale. Sono spazi dilatati e trasfigurati dalla cinepresa; spazi anche sonori e musicali, riempiti dalla musica di E. Morricone e da motivi famosi: “Amapola”, “Summertime”, “Night and Day”, “Yesterday”. È un film di morte, iniquità, violenza, piombo, sangue, paura, amicizia virile, tradimenti. E di sesso. In questa fiaba di maschi violenti, le donne sono maltrattate; la pulsione sessuale è legata all’analità, alla golosità, alla morte, soprattutto alla violenza. È l’America vista come un mondo di bambini.
Piccolo gangster senza gloria, Noodles diventa vero protagonista nell’epilogo quando si rifiuta di uccidere l’ex amico Max. Soltanto allora, ormai vecchio, è diventato uomo».
Recensione bellissima e, come detto, a nostro avviso straordinaria e inappuntabile, da contrapporre a quella parallelamente antitetica del suo ostinato detrattore Mereghetti: «Leone, che da tredici anni pensava a questo film, l’ultimo che poté dirigere, intendeva celebrare da europeo l’immaginario del cinema classico americano, approdando a un finale cupio dissolvi carico di malinconia per i sogni perduti. Ma lo sforzo di sei sceneggiatori non ha prodotto un solo personaggio coerente e la durata spropositata non basta ad evitare buchi nel racconto. Come sempre a Leone riesce bene la trasfigurazione lirica del triviale: rende epica una mano che mescola lo zucchero in una tazzina e struggente il ricordo di uno stupro tanto gratuito quanto repellente. Ma lo stile non basta: per quanto le singole scene siano dirette magistralmente, c’è troppo autocompiacimento, oltre ad un’aridità di sentimento che lascia perplessi in un film che vorrebbe essere anche una grande elegia romantica».
Ora, premettiamo col dire che Mereghetti non ha mai simpatizzato troppo per il grandissimo Leone, e non ne capiamo il perché, ribadendo dunque fermamente quanto avrete già intuito sia il nostro pensiero a riguardo. Vale a dire, Mereghetti profondamente equivocò la natura favolistica, al contempo terribilmente e volutamente maschilista che sottende la strepitosa operazione di Leone. C’era una volta in America non è un film per niente, marcatamente misogino, rappresenta invero semplicemente l’epifania mnemonica, proustiana di un malavitoso forse tardivamente redentosi, la cui visione del mondo altri non fu che accorpata e simbioticamente strutturata secondo la distorta educazione inconsciamente ricevuta e in lui infusasi per via della frequentazione del suo originario ambiente di provenienza, trucido e squallidamente virile, e per via dei suoi similari sgherri luridamente sessisti, violenti e puerilmente narcisisti che, per quasi tutta la sua esistenza, criminosamente bazzicò impunemente e impudicamente. Non è difficile da capire, no? C’era una volta in America è un capolavoro immortale ed è essenzialmente racchiudibile personalmente in queste poche ma indelebili, lapidariamente sacrosante frasi nostre che ne sanciscono, sanamente sacramentano la sua enormità infinita e apoteotica: adattato, dal romanzo sopra menzionatovi, dalle penne Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini, Sergio Leone e del non accreditato Ernesto Gastaldi (di cui Mereghetti s’era dimenticato) con dialoghi aggiunti di Stuart Kaminsky, il film, raccontato inizialmente in analessi, parte con due ragazzini teppistelli, Noodles e Max (Robert De Niro & James Woods da adulti) che, dopo tanti furtarelli e marachelle più o meno gravi, dopo svariati crimini, dopo l’arresto di Noodles, nuovamente e amicalmente in maniera fraterna incroceranno per lunghissimi anni la loro vita spericolata, collaborando di nuovo in maniera delinquenziale e brutale, dandosi da duri a efferate rapine a mano armata e a feroci assassinii a sangue freddo. Entrambi innamorati, sin dall’infanzia, di Deborah (Jennifer Connelly da giovane, Elizabeth McGovern da grande), se la contenderanno per sempre appassionatamente, vivendo nel frattempo anche un’inestirpabile e indomabile competitività allucinante, litigheranno e si perderanno per strada forse eternamente o, chissà, immaginariamente? In quanto il finale corrisponde alla verità oggettiva dei fatti così come realmente accaddero o è soltanto il confuso sogno e il delirio fantasioso di un Noodles frastornato dall’oppio? Forse uno dei due tradì gli accordi, forse è stato sol un amaro e stupendo, inafferrabile rimpianto, il visualizzato, fantasmagorico e allegorico disincanto di un uomo stanco e drogato. Il film va inteso in questo senso e così inquadrato. È vero, molte scene sono scollate e a volte incompatte, la pellicola è dispersiva in molti punti e, a un certo punto, oltre a essere poco coesa, risulta slabbrata, alcuni siparietti, di natura volutamente goliardica e machista, possono apparire, a prima vista, fuori luogo, cioè inutili digressioni per allungare il brodo e C’era una volta in America risente, qua e là, d’un montaggio non sempre intonato e bilanciato con l’andatura del racconto. Ma è una sapiente amalgama da ascrivere all’ottica d’un film delirante e creato appositamente come un mosaico e uno scatenato, ininterrotto, emozionale stream of conscioussness filmico-visivo. Come tale va percepito e visceralmente goduto.
Cast portentoso in cui, oltre ai succitati De Niro e Woods (i quali, in maniera però diversa, gareggeranno e rivaleggeranno ancora, in Casinò, per un’altra donna al centro dei loro antagonistici desideri impossibili, Ginger/Sharon Stone), McGovern e Connelly, sfilano una galleria di facce caratteristiche, anche in vesti d’impagabili caratteristi, fra cui William Forsythe (Colpevole d’omicidio), Treat Williams, Joe Pesci in un cammeo d.o.c. così come quello di Burt Young, il compianto Danny Aiello, fanno capolino le apparizioni fulminee dello stesso produttore Milchan e di Mario Brega, e svettano le due damigelle d’onore nelle vesti ingrate di due donne dai facili costumi, Tuesday Weld e la defunta, ahinoi, bellissima e indimenticabile Darlanne Fluegel (accreditata qui come Fleugel, poi interprete di Sorvegliato speciale con Sylvester Stallone).
Fotografia funzionale di Tonino Delli Colli. Musiche, evidenziamolo ancora, di Ennio Morricone.
Insomma, chi non ritiene questo film un capolavoro, è meglio che cambi mestiere e vada a coltivare le cicorie.
di Stefano Falotico
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