Regia di Sergio Leone vedi scheda film
“Is this your way of getting revenge?”
“No. It’s just the way I see things.”
New York, 1933: un gruppo di gangster sta cercando furiosamente Noodles (Robert De Niro), inebriato dai fumi dell’oppio in una fumeria gestita da cinesi. In mano la copia di un giornale, che riporta la notizia della morte di tre contrabbandieri d’alcol per mano dei federali. I suoi tre soci, i suoi tre amici di una vita. Noodles sembra cercare nell’oppio l’oblio, in cui dissolvere il rimorso per averne causato la fine con una soffiata. Messosi in salvo dai gangster, va a trovare il vecchio amico oste Fat Moe, rinvenendolo malamente picchiato e torturato. Una volta prelevata una chiave alloggiata nel pendolo dell’orologio del bar di Fat Moe, Noodles apre con quella una cassetta di sicurezza della stazione; la valigia in essa contenuta, però, ospita esclusivamente fogli di giornale. Non resta che la fuga…
New York, 1968: Noodles fa ritorno a New York, rispondendo ad una convocazione misteriosa che sembra averlo rintracciato, nonostante adesso si faccia chiamare Robert Williams. All’interno del bar di Fat Moe niente sembra essere cambiato.
“The suitcase was empty.”
“Then who took it?”
“That’s what I’ve been asking myself for 35 years.”
Bar di Fat Moe, 1920: Noodles (Scott Schutzmann Tiler) è un giovane scavezzacollo del ghetto ebraico, innamorato di Deborah (Jennifer Connelly), sorella di Fat Moe, al punto di osservarla continuamente danzare, nascosto dietro l’asse mancante di una parete. Noodles, assieme agli amici più piccoli Patsy, Cockeye e Dominic, esegue qualche lavoretto da malfattore per un piccolo boss locale, un certo Bugsy (James Russo), agevolato dalla corruzione dilagante fra i poliziotti di quartiere. La conoscenza casuale con un altro ragazzo scapestrato, Max (Rusty Jacobs), porta alla formazione di un gruppo più ampio e determinato a mettersi in proprio. Fra una vicissitudine e l’altra, i ragazzi arrivano a pestare i piedi a Bugsy e gli eventi precipitano, fino a portare alla morte di Dominic e all’incarcerazione di Noodles…
New York, 1932: Noodles esce dal carcere, immediatamente accolto da Max (James Woods). La banda ha proseguito e ingrandito l’attività durante la detenzione dell’amico, pronto a riabbracciare tutti e a tornare a delinquere al soldo di boss e di contrabbandieri sempre più importanti.
Mentre Noodles cerca di (ri)conquistare la sempre ammaliante Deborah (Elizabeth McGovern), la fine del proibizionismo si avvicina e, di conseguenza, si avvia all'esaurimento la principale fonte di affari del gruppo di malavitosi. Max è ormai preda di una mania di grandezza e si ritrova sempre più aspramente in dissidio con l'amico/rivale Noodles, che nel frattempo ha lacerato e demolito per sempre il suo amore con un gesto di sconsiderata violenza. Si respira la fine di un’era…
“Non si tratta più di un western, ma di cinema americano, nel senso più globale del termine: sesso, passione, tradimento, amicizia e amore. E poi, oltre a Noodles e al sogno, c’è un altro protagonista: il tempo. E il tempo cambia tutto.” [Sergio Leone]
Per un motivo o per l’altro, in quasi trent’anni di vita non avevo mai visto “C’era una volta in America”. Mai negligenza fu più provvidenziale, giacché ho potuto finalmente goderne nella versione estesa risalente al 2012, frutto di una brillante operazione di recupero e restauro voluta dai figli di Leone – divenuti produttori cinematografici di successo. Questa versione, auspicabilmente definitiva, raggiunge quota 251 minuti (ovvero 4 ore e 11 minuti) e ripristina l’ingiustizia dello scempio che ne venne fatto nel 1984 dal produttore Arnon Milchan per la distribuzione negli Stati Uniti.
Ogni singolo minuto di questi 251 rappresenta uno sfoggio di potenza cinematografica, magniloquenza, epicità. “C’era una volta in America” è un film consapevolmente grandioso e definitivo, risultato di un lavoro di ideazione, scrittura e realizzazione durato circa dieci anni. Il regista romano, reduce dall’eccellente “C’era una volta il West” e dal meno riuscito (nonché girato un po’ controvoglia) “Giù la testa”, si concentrò totalmente sul suo progetto più ambizioso, rifiutando perfino di dirigere “Il padrino”. La storia gliene darà merito e ragione.
Il testo di partenza è stato il romanzo “The Hoods” di Harry Grey, memoria semi-autobiografica dietro pseudonimo di un gangster di origini russe. Il film abbraccia un periodo di storia americana niente male, grazie anche ad uno strepitoso lavoro al montaggio di Nino Baragli; in un poderoso turbinio di flashback e flashforward, “C’era una volta in America” si muove tra gli Stati Uniti del proibizionismo nel ‘32 - ‘33, i quartieri ebraici di New York nel 1920 e l’età di scandali politici, corruzione e lobbismo nel 1968. La continuità è assicurata da un esemplare connubio: quello formato dalla regia di Leone (talora giudicata pomposa, ma qui meno incentrata sui primissimi piani del solito) e dagli straordinari temi musicali di Ennio Morricone, che seguono i personaggi anche nelle loro peregrinazioni temporali. Lo stile visivo, come dichiarato dallo stesso Leone, è ispirato ai dipinti del realismo americano di Edward Hopper, Reginald Marsh e Norman Rockwell.
“C’era una volta in America” è un film definito "totale" per l'ampia gamma di temi e valori trattati. Ed è recitato in maniera superba: il Noodles adulto di Robert De Niro è un personaggio già leggendario, a cui fa da contraltare un James Woods che riesce comunque ad esprimersi su livelli altissimi. Presenti anche vari volti noti in parti ridotte (Joe Pesci su tutti, addirittura Louise Fletcher in una parte tagliata e dimenticata fino al summenzionato restauro del 2012) ed esordio assoluto per l’adolescente Jennifer Connelly, che nell’85 sarebbe stata protagonista di “Phenomena” di Dario Argento – peraltro giovane collaboratore di Leone per la sceneggiatura di “C’era una volta il West” assieme a Bernardo Bertolucci.
Tutto questo non significa che ad oggi ci sia unanime consenso intorno a questo film, tanto che la pervicace stroncatura da parte di Paolo Mereghetti è cosa nota; il celebre critico ha usato termini duri per quello che è rimasto l’ultimo lavoro di Leone: autocompiaciuto, irritante, arido. Vero è che alcuni aspetti – per così dire – attaccabili ci sono, nonostante facciano parte della cifra del Leone autore: una certa trivialità, una sceneggiatura redatta a dodici mani che risulta frammentaria in quanto non tutti i personaggi evolvono in maniera lampante, una scena di stupro (ormai quasi ricorrente nella filmografia leoniana) assai pesante da mandar giù.
Personalmente, non ritengo che nessuno dei sopracitati rappresenti un palese difetto. E poi si dimentica tutto concentrandosi sulla struttura circolare del film, che si apre e si chiude all’interno di una fumeria d’oppio, generando una teoria del sogno mai smentita da Leone e terribilmente affascinante. Teoria che trova speculari conferme in due anomale contraddizioni: all’inizio un telefono suona ossessivamente (ben 24 volte) mentre Noodles si accascia in fumeria, alla fine un piccolo carosello di auto anni ‘30 sfila in strada in pieno 1968, fuori dalla tenuta del senatore Bailey. E che dire del sorriso di Noodles? “C’era una volta in America” è un capolavoro.
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