Regia di Sergio Leone vedi scheda film
Terminata la cosiddetta “trilogia del dollaro”, con la quale aveva stravolto e reinventato il genere, Sergio Leone realizza il suo capolavoro e, a parer mio, la più grande “Opera-western” di sempre. Tornerà a livelli elevatissimi con i successivi “Giù la testa” (1971) e “C’era una volta in America” (1984), ma qui siamo di fronte ad un pezzo unico nella Storia del Cinema, un’impresa forse irripetibile. Quentin Tarantino, con “Bastardi senza gloria” (2009), si è cimentato onorevolmente nel tentativo di emulare il maestro, realizzando un film perfetto, ma lontano dal prorompente senso dell’epica e della solennità del suo ispiratore. Le premesse per qualche cosa di eccezionale c’erano tutte. Si gira finalmente nella Monument Valley di John Ford, si dispone finalmente di attori già richiesti ma non ottenuti per motivi economici all’epoca di “Per un pugno di dollari” (1964), attori di livello artistico e internazionale degni del progetto; si dispone di una robusta sceneggiatura scritta dallo stesso Leone e da Sergio Donati, nonché di un ottimo soggetto per il quale Leone si avvale della collaborazione di Bernardo Bertolucci e Dario Argento. Quasi sospinta dalle note di Ennio Morricone, la Monumetal Valley avvolge non solo i personaggi, ma anche lo spettatore. Si sente il sole cocente, si respira la polvere sollevata dai cavalli, si attraversa il deserto al seguito del primo treno che congiungerà la costa orientale all’occidentale. In questo maestoso contesto (ma non solo in questo: le scene girate in interno sono importantissime), danno il meglio di sé divi del miglior cinema americano dell’epoca, da Charles Bronson a Henry Fonda, Jason Robards e Lionel Stander, e non meno grandi interpreti del cinema italiano, da Claudia Cardinale, qui valorizzata come solo Federico Fellini fu capace di farlo (8 ½, ovviamente), a Gabriele Ferzetti e, anche se solo per una breve ma indimenticabile apparizione, Paolo Stoppa. Soggetto e sceneggiatura sono più che originali, c’è una trama per ogni personaggio e all’azione di ciascuno di essi corrisponde un preciso tema musicale. I fortunati interpreti ebbero il privilegio di recitare accompagnati dalla colonna sonora già scritta e registrata. Ennio Morricone è al massimo della sua creatività. Assegna una stridente, bellissima e lacerante armonica al personaggio di Armonica (Charles Bronson), una ballata “Cable Hogue” ante litteram a Cheyenne (Jason Robards), un motivo di sublime liricità a Jill McBain (Claudia Cardinale), la stessa aria che chiude epicamente il film. Se considero questo come il miglior film di Sergio Leone, un’opera che egli stesso non riuscirà ad eguagliare, ritengo invece che Ennio Morricone tornerà allo stesso livello creativo anche nelle due successive colonne sonore che scriverà per il regista romano. L’alchimia tra i due rientra tra le più leggendarie ed è paragonabile a storiche sintonie tipo Fellini/Rota, Fellini/Mastroianni, Bergman/Ullman, Chabrol/Huppert, Demy/Legrand, ecc...
Nel dirigere lo splendido cast di cui dispone, Leone si prende una doppia rivincita. In primo luogo, dopo il successo mondiale della “trilogia del dollaro”, pochi divi di Hollywood avrebbero rifiutato un’offerta dall’inventore del nuovo cinema western e il regista si leva lo sfizio di scegliere tra gli altri Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards e Woody Strode, facce che parlano da sole, ma - seconda rivincita - non chiede loro di fare altro: si limita a far valere i loro primi piani, gli sguardi, la presenza ieratica e iconografica che li caratterizza. A realizzare il Grande Film ci penserà il Maestro, ci penseranno le musiche, gli immensi scenari, le inquadrature, i costumi di Carlo Simi con i suoi raffinatissimi spolverini da “uomini a cavallo” e le mises di Claudia Cardinale, fino alla maglietta color mattone di Charles Bronson. Tutto è perfetto in questo film. Dopo i circa 18 impagabili minuti dei titoli di testa, Charles Bronson appare e fa fuori a revolverate i tre gaglioffi che lo attendevano alla stazione. In “Per un pugno di dollari”, Clint Eastwood iniziava abbattendone quattro. Clint era “the man with no name” e non si sa alcunché del suo passato; questo si chiama Armonica e ha un tragico evento del passato da vendicare. Dall’eccidio per legittima difesa, si passa alla strage efferata della famiglia McBain, che si sta preparando all’arrivo di Jill, la nuova moglie del patriarca. Frank (Henry Fonda) e i suoi uomini spuntano dal nulla e la sterminano. Il ricordo di Lee Van Cleef all’inizio di “Il buono, il brutto, il cattivo” (1966) sorge spontaneo. Sergio Leone è molto fedele a se stesso. Riprende personaggi, caratterizzazioni e linguaggio cinematografico creati nei tre western precedenti. Li sviluppa, li ingrandisce, li migliora. La perfida cattiveria del cinico e gelido Henry Fonda supera di gran lunga la malvagità istintiva di Gian maria Volonté e Lee Van Cleef nella “trilogia del dollaro”. Con “Il buono, il brutto, cattivo”, nasce una figura di “cowboy” destinata a lunghissima carriera e incarnata per la prima volta da uno strepitoso Eli Wallach (il “brutto” del titolo): un protagonista di film western serio che strappa la risata e suscita una specie di tenerezza. In “C’era una volta il West”, il ruolo, con diverse sfumature, si moltiplica per tre e se ne fanno carico nientemeno che Paolo Stoppa, Lionel Stander e Jason Robards. Alle redini del suo calesse che accompagna Claudia Cardinale, ridacchiando da vero “vecchietto del Far West”, sbraitando e facendosi largo a scudisciate, Paolo Stoppa si produce in una delle sue ultime grandi interpretazioni cinematografiche. Il suo breve monologo urlato frusta in mano ha qualche cosa di lirico. Lionel Stander, nel suo divertente scambio di battute con la vedova McBain, è impeccabile e non si dimentica facilmente. Il personaggio di Cheyenne (Jason Robards) va oltre. Il suo ruolo è tutt’altro che una comparsata, è uno dei protagonisti del film e funge da cinghia di trasmissione tra il precedente “Tuco” (Ely Wallach) in “Il buono, il brutto, il cattivo”e il successivo Juan (Rod Steiger) in “Giù la testa”. Una figura a dire il vero poco americana e in un certo senso romana, inventata di sana pianta da Sergio Leone e che ispirerà una moltitudine di personaggi del popolare filone del western italiano comico-grottesco. Basti pensare alla saga di “Trinità” o a “Il mio nome è Nessuno” di Tonino Valerii (1972), un film ideato e in parte girato dallo stesso Leone che, per giustificato pudore, non volle essere accreditato. “C’era una volta il West” rientra sicuramente tra i tre o cinque film che ho visto più volte in vita mia. Pur conoscendolo fotogramma per fotogramma, continuo ad accostarmici come si torna ad ammirare un gigantesco affresco visto decine di volte, sapendo perfettamente che qualche cosa ci deve ancora essere sfuggito.
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