Regia di Stephan Elliott vedi scheda film
Per un regista un’opera del genere è quel che si dice “il film della vita”. Capisci che trattasi di film intrinsecamente cult anche solo da una scena. Basterebbero pochi elementi per annoverare l’opus secondo della scarna carriera di Stephan Elliott nell’universo dei film mitici di un’epoca, ma anche naturalmente evergreen. Basterebbe il pullman rosa, ottenuto chissà in che modo da alcuni turisti svedesi, che scorrazza nei deserti australiani. Basterebbe l’idea di una scalcinata tournée di drag queen che si esibiscono in capisaldi del pop femminile. Basterebbero i fantastici numeri da musical trash (ascoltiamo, tra gli altri, i Village People, Gloria Gaynor, Lena Horne, Charlene).
Basterebbe il funerale pieno di checche e la bara rossa che scende giù. Basterebbe la naturalezza estrema e la graffiante delicatezza con la quale viene affrontata una vicenda soggetta a bozzettismi e banalità (i tre protagonisti sono sì emarginati, ma anche sinceramente felici nelle proprie condizioni). Basterebbe lo scontro alcolico tra la matura transessuale Bernadette e una bifolca vacca in una squallida bettola. Basterebbe l’indimenticabile Bernadette che lo spettacolare Terence Stamp disegna con affetto e cinismo, acidità e malinconia.
Basterebbe la sceneggiatura di ferro (con dialoghi e battute da urlo) che non dimentica né di aprire una parentesi seria nella questione della ghettizzazione (Guy Pearce, il più fisicato dei tre, viene minacciato da una manica di bovari incivili) né di inserire una tematica familiare (Hugo Weaving ha una moglie e un figlio). Basterebbero i sensazionali costumi (premiati con l’Oscar) e il perfetto trucco. Basterebbe il tono brillantemente sereno che attraversa tutto il film. E basterebbe il finale di largo respiro che ironizza, omaggia e prende in giro i grandi kolossal hollywoodiani. Insomma, tra tanto fracasso e tanta caciara, una botta di vita non indifferente. Uno di quei film che non invecchierà facilmente.
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