Regia di George Cukor vedi scheda film
Rapporto a quattro è stato un progetto che fu proposto a molti registi da Joseph Strick (noto per le sue temerarie trasposizioni in immagini di importanti lavori letterari così complessi nella scrittura da risultare imprese quasi sempre suicide) a Mankiewicz ma che fu in buona parte rifiutato per le difficoltà oggettive che presentava e che approdò alla fine nelle sapienti mani di George Cukor[1] che, nonostante non fosse proprio un film adatto alle sue corde, fece il possibile per renderlo almeno accettabile, ma purtroppo senza molto successo perchè malgrado l’impegno profuso, il risultato era e rimane modesto, e questo pur potendo contare su un cast stellare (Dirk Bogarde, Anouk Aimée, Anna Karina, Robert Forster, Michael York e Philippe Noiret) che in teoria avrebbe dovuto essere la carta vincente, ma che non riuscì invece a risollevarne le sorti e il gradimento.
Eppure c’era stata molta attesa perché era tratto dai quattro romanzi che formano il Quartetto di Alessandria(Justine, Balthazar, Mountolive e Clea)monumentale affresco di Lawrence Durrell (una tetralogia con cui l’autore ha dato vita a un modo di raccontare davvero innovativo che vanta una scrittura tecnicamente inappuntabile che si spinge davvero ai limiti del virtuosismo). Un esercizio di scrittura insomma, capace di trasportare il lettore dentro una atmosfera crudele e seducente di forte afflato sensuale. Il tutto, sullo sfondo di una società in disfacimento e disgregazione. Un’opera dunque complessa e stratificata che contribuì a renderlo uno degli autori più interessanti , creativi ed importanti del novecento letterario internazionale[2].
In molti (soprattutto la critica) erano dunque curiosi di vedere che cosa ne sarebbe uscito fuori, e questo nonostante le perplessità più volte espresse da Durrell stesso che non credeva molto (e a ragione) sulla bontà dell’operazione e non lesinava certo il suo scetticismo.
Il primo difetto del film (e forse anche il più grosso) riguarda proprio la sceneggiatura di Lawrence B. Marcus che svilisce troppo il senso dei romanzi a cui si ispira.
Se era praticamente impossibile restituire intatta non solo tutta la cosmopolita rete di personaggi che animano i quattro tomi della tetralogia (scrittori, diplomatici, possidenti, spie, avventurieri) ma anche e soprattutto la verità intrigante e un po’ morbosa intrisa di oscenità e passioni estreme in cui l’amore e il delitto, il bene e il male, la virtù e il capriccio, rappresentano le pulsioni che albergano negli angoli più bui delle strade e delle piazze di Alessandria d’Egitto (in buona parte ricostruita in studio) che è l’ambiente in cui si muovono i personaggi, e se era altrettanto difficile restituire la visione perversa di una realtà altrettanto ambigua, oscura e sfaccettata come quella dei salotti e dei bordelli, purtroppo non venne fatto alcuno sforzo in quella direzione.
Si finì così per disperdere quasi del tutto ciò che di intenso e di speciale proponeva lo scrittore con i sui quattro libri e questo con la scellerata decisione di rendere lineare e conseguente lo sviluppo del racconto privandolo così delle differenti e spesso divergenti verità contrapposte che Durrell aveva immaginato e sostituendo a tutto questo un esotismo kitsch sostitutivo davvero fuori luogo (non a caso preteso - e forse addirittura imposto - proprio dai produttori che erano interessati soprattutto alle parti decisamente osé della storia -o delle storie, se vogliamo essere pignoli).
Tutto questo ha finito per danneggiare irrimediabilmente l'intera operazione, trasformando la complessa struttura anche formale creata dallo scrittore, in una specie di fumettone commerciale laido e scollacciato che fu definito impietosamente da molti critici nostrani un polpettone alla Peyton Place con cammelli.[3]
Vedendo il film, si avverte molto bene tutto l’imbarazzo di Cukor davanti a siffatta materia: nonostante abbia fatto davvero l’impossibile per limitare i danni, il suo evidente impegno riuscì però a salvare solo poche cose: l’ambientazione, certe atmosfere enigmatiche e un poco sfuggenti dei personaggi femminili (che qui trascina a tratti in un gioco ipnotico e morboso) coi quali si trova sempre a suo perfetto agio (e nemmeno qui si smentisce) , la fotografia di L. Shamroy. Troppo poco insomma per condurre sana e salva la barca in porto cercando di schivare i marosi.
La versione italiana poi risente anche di numerosi interventi censori che imposero molti tagli a causa dei contenuti ritenuti morbosamente scandalosi (prostituzione infantile, incesto, travestitismo, omosessualità e così via discorrendo) poco tollerati dal nostro provincialismo autarchico e perbenista, cosa questa che la rendono ancor più strampalata e priva di senso,
[1] Per la corretta realtà dei fatti devo però precisare a difesa del regista, che Cukor subentrò a Strick solo dopo qualche giorno di lavorazione ereditando così un progetto già guastato e sul quale era ormai impossibile intervenire.
[2] Ambientati ad Alessandria, in Egitto, durante la seconda guerra mondiale, i quattro romanzi raccontano essenzialmente la stessa storia da diversi punti di vista e giungono a conclusioni diverse, a seconda di chi narra la stessa vicenda.
[3] La storia, così banalizzata, si svolge ancora ad Alessandria d’Egitto. Sono gli anni trenta del secolo scorso ed è lì che Justine, la bella, innamorata moglie ebrea di un banchiere anche capo dei Copti, influenzerà la vita di tutte le persone che incontra, soprattutto quelle di un giovane intellettuale e di alcuni soldati inglesi che prima seduce e poi si porta a letto per carpire notizie e riuscire così a procurare armi ai suoi compatriotti. Attorno a loro, si muove una variegata e colorata fauna portatrice di vizi e di provocazioni.
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