Regia di Todd Haynes vedi scheda film
Storia di due ragazzini americani sordi che nell’arco di cinquanta anni (1927-1977) s’incontrano per quelle alchimie del destino non inconsuete agli uomini, parto della fantasia sbrigliata dell’inventore di favole moderne di nome Brian Selznick e film non del tutto riuscito di Todd Haynes.
Da un’artista acclamato (se è grande lo dirà il tempo) ci si aspetta ogni volta il passo giusto.
Non è così, tutte le arti c’insegnano che i capolavori sono spesso punte emergenti di un gran corteo di opere minori dove l’impronta del genio rimane, ma come in controluce, forse lui stesso le avrebbe distrutte, ma si sa, ci si affeziona alle cose che facciamo, anche se figlie di un Dio minore.
E così Todd Haynes presenta a Cannes un’opera che attira critiche, un film che galleggia fra accettazione colma di riserve e negazione tout court, il coro dei critici fa confronti con l’Hugo Cabret di Scorsese e La stanza delle meraviglie ne esce malconcia.
Cerchiamo di capire perché.
Il film è visivamente esuberante, curato e immaginifico come il libro da cui è tratto, Wonderstruck di Brian Selznick, le riprese nei Musei valgono da sole un premio e l’accostamento fra due epoche, in bianco e nero la prima, a colori la seconda, è un modo di raccontare un secolo partendo dal cinema che merita senza riserve.
Se però non è solo la passione cinefila a costringerci seduti per due ore davanti ad uno schermo, se c’è qualcosa che nelle opere dell’uomo cerchiamo e ci attira, spinti da curiosità incontenibile, è la promessa che l’opera contiene.
Alla base di Wonderstruck (la traduzione italiana dà alla nostra bella lingua il giusto primato) c’è un romanzo, modello insuperato della narrazione scritta e della promessa al lettore di esplorazioni extra moenia.
L’impresa di un regista, narratore-visivo, è generare un punto di vista esterno, quello dell’osservatore, da affiancare al suo e a quello del protagonista della storia.
Ma l’osservatore non è il lettore della pagina scritta, e su questo sarebbe lungo indagare e non è il momento.
Lo spettatore guarda, mimesis, immedesimazione, trascinamento, emozione guidata dalle immagini in movimento, tutto entra in gioco, il linguaggio visivo e quello verbale s’intrecciano manipolati dall’artista-demiurgo, narrazione e descrizione convergono e l’una non interrompe l’altra lasciandola in attesa. E potremmo continuare a lungo, ma arriviamo a Todd Haynes.
La storia dei due ragazzini americani sordi che nell’arco di cinquanta anni (1927-1977) s’incontrano per quelle alchimie del destino non inconsuete agli uomini, è il parto della fantasia sbrigliata dell’inventore di favole moderne di nome Brian Selznick.
New York è il polo di attrazione. Per metà film è la città in bianco e nero del cinema che fu, quello che si proiettava nei teatri trasformati in salle de cinèma e la gente applaudiva a fine pellicola, carrozze e automobili dalle grosse trombe di latta si contendevano la strada, l’assenza di colore ovattava il mondo in una bicromia che annullava i confini tra realtà e fiaba e la gestualità del muto era più eloquente del frastuono del mondo a colori.
In parallelo, con montaggio sincronico alternato, c’è la New York colorata, chiassosa, multietnica, quella dei vicoli sporchi e dei grandi Musei, delle piccole librerie rivestite in legno colme di libri e degli scippatori che ti rubano al volo il portafoglio per strada.
In questi due mondi vivono Rose e Ben e la stanza delle meraviglie è sì quella descritta dalla guida del Museo, ma è soprattutto questa, un secolo che in cinquanta anni ha cambiato forma e colore, un diorama reale che gli occhi dei bambini guardano con lo stesso stupore che suscitano quelli del Museo di Storia Naturale.
Ben e Rose vivono a distanza, lei agli inizi, lui cinquanta anni dopo, legati dai fili di un’invenzione narrativa. S’incontreranno, alla fine, come possono farlo persone vissute così distanti nel tempo, i nodi si scioglieranno in una di quelle agnizioni preparate da una serie di indizi, tappe significative, coincidenze che sfidano la casualità disordinata degli eventi.
Accade cioè quel che doveva accadere e l’opulenza immaginifica del romanzo di Selznick conduce con naturalezza all’approdo nel reale di una storia che ha tutti i connotati della favola.
La stessa naturalezza manca al film, a tratti opaco, come trattenuto, incapace di volare e di far volare.
Passato e futuro vissuti contemporaneamente, un campo visivo diacronico e sincronico che comprende sia l’azione specifica sia il tutto nella sua complessità, richiede una mano salda come quella che regge un aquilone e governa il vento, altrimenti la carta colorata si affloscia e si spiaccica miseramente a terra.
Fuor di metafora, e per semplificare, diciamo che le due ore passano lente, si avverte l’ingranaggio della costruzione che dovrebbe sparire a opera finita, lasciando spazio a scioltezza, leggerezza e fluidità.
Quale che sia la storia da raccontare, il teorema da dimostrare, il tema da sviscerare, il mezzo giustifica il fine, non il contrario.
Se l’opera simula la storia deve farlo con il suo linguaggio e chi la osserva saprà come tradurlo per sé.
L’osservatore dei rilievi della Colonna Traiana ebbe certo vita più difficile della nostra nel decifrare quel serpentone, eppure il merito di quell’oscuro scultore fu sempre riconosciuto perché evocò atmosfere insostituibili per trasmettere il suo messaggio, e duemila anni dopo continua a farlo.
La stanza delle meraviglie non decolla perché spiega, insiste, vuol istruire a tutti costi.
Ripetere due volte la frase famosa di Oscar Wilde su fango e stelle la fa diventare un tormentone, uno spiegone abusato; Space Oddity che risuona in sordina all’inizio e poi è sparata da un coro nel finale sottolinea l’amore del piccolo Ben per le stelle come fosse una scoperta, qualcosa da sapere a tutti i costi dall’inizio; Julienne Moore truccata da nonna (la Rose di cinquanta anni dopo) fa tenerezza tanto è poco credibile mentre Ben e l’amico conosciuto al Museo di Storia Naturale sono un esempio chiaro di come non sono le amicizie fra bambini.
Punto a favore è invece la piccola Rose, Millicent Simmonds per la prima volta sulla scena, una creatura dal visetto mobile su cui si stampano le emozioni con una grazia meravigliosa, una fata turchina che quando sorride, e lo fa spesso, nonostante tutto, illumina lo schermo.
Lodi molto genuine anche per il direttore della fotografia Ed Lachman e per l’abilità della costumista, Sandy Powell, la resa ottimale delle ambientazioni è merito loro.
www.paoladigiuseppe.it
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