Regia di Raúl Arévalo vedi scheda film
La forza estetica e narrativa de Tarde para la ira è tutta nel suo folgorante incipit. Il regista ci porta direttamente dentro la macchina dei ladri di una gioielleria proprio nel momento di passaggio tra la fuga e l’arrivo della polizia. La tensione cresce di secondo in secondo proprio grazie alla strategia immersiva adottata dal regista e prosegue con forza e crudezza fino all’impattante incidente che consegna l’autista alle forze dell’ordine.
In questi pochi minuti è condensata la concezione formale di Raúl Arévalo, stimato attore spagnolo, classe ’79, al suo debutto registico. Una concezione che riprende il grande cinema degli anni settanta, crudo, distaccato, imprevedibile – si fanno i nomi di Carlos Saura e Sam Peckinpah – optando però per un impatto meno iperrealista e più naturalistico, lontano dall’estetica virtuosistica, funambolica ed esplosiva di molto cinema commerciale.
I tanti silenzi, le esplosioni di rabbia e violenza, i ritratti umani ma anche ambientali di una Spagna in crisi etica, o forse soltanto ancora ostaggio del fardello cainita e mai sopito ereditato dalla Guerra Civile e dal franchismo, rimpolpano l’ossatura solida e decisa di una trama semplice e lineare che affonda nel mito. Tant’è che Tarde para la ira può ben dirsi un western sia per il tema dominante, la vendetta, sia per gli scenari – scorci di quartieri periferici semi deserti o ampi e brulli spazi orizzontali della Spagna centrale – sia per il sistema dei personaggi che all’uomo solitario e taciturno che torna a mietere vendetta abbina un inquieto Sancho Panza interpretato con significativa partecipazione da Luis Callejo; una mujer fatal domestica e prosaica, delusa e illusa, con figlio a carico e un amore diviso in due; e infine una sequela di personaggi minori, veri e propri rottami sociali, una fauna umana rintronata dalla crisi e dalla povertà sociale su cui svetta il breve ma intenso personaggio interpretato da Manolo Solo.
Se Antonio de la Torre, già apprezzato in ruoli di uomini ordinari che covano odio, rabbia, furore o qualsiasi altro demone distruttivo, non è certo una sorpresa e nel suo distacco emotivo quanto performativo emerge la forza animalizzante e soprattutto cosificante – da cosificación, pratica estetica cara alle lettere spagnole da Valle-Inclán in avanti – è comunque Luis Callejo che sorprende per impatto e analfabetismo emotivo. Un Sancho Panza che si fa Dante nel momento in cui, invece di incontrare il suo Quijote trova il suo Virgilio. Qui non ci sono mulini a vento, ma demoni e fuoco.
Da Cervantes a Peckinpah, passando da Saura. Raúl Arévalo firma così un film che conferma la straordinaria capacità del cinema spagnolo di riadottare le forme e i moduli del cinema di genere a favore di urgenze se non universali, almeno spagnole ed europee.
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