Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Viviamo nella convinzione che un cittadino della Corea del Nord (ma anche di Cuba e, fino a una trentina di anni fa, della Germania Est o della Cecoslovacchia) debba per forza voler fuggire dalla propria patria per andare a vivere nella parte capitalistica del mondo. Ci sono una miriade di esempi che vanno in questo senso, ci sono addirittura persone che hanno perso la vita pur di andarsene dalla duplice disgrazia rappresentata dalla dittatura - e quindi dalla mancanza di libertà - e dalla povertà, (salvo poi accorgersi che l'oltre e il dopo non erano dorati come sembravano). Perfino la storia del cinema è piena di questi esempi, sia sul versante del dramma e della denuncia politica che su quello della commedia, quanto meno da Ninotchka in poi.
Il prigioniero coreano ci parla di un'eccezione alla presunta regola di cui sopra, ovvero di un coreano del nord che finisce per errore oltre il confine meridionale e cerca disperatamente di tornare a casa propria. Le autorità della Corea del Sud, però, sono talmente convinte dell'idea con la quale ho iniziato questo commento che non possono che pensare che quest'uomo, di nome Chul, sia un profugo o, se non è un profugo, una spia. E qui, secondo me, dopo un inizio di notevole potenza cinematografica, casca l'asino di Kim Ki-duk. Perché i poliziotti sudcoreani sono talmente ottusi da voler obbligare il povero Chul a confessare di essere una spia, nonostante questi sia talmente spia da girare per Seul, dove viene condotto contro la sua volontà, ad occhi chiusi per non vedere niente e ad ostinarsi a chiedere di essere rimandato a casa. Ma non basta, perché, come in qualche centinaio di film americani, nella polizia sudcoreana troviamo l'agente buono e quello cattivo, quello che per salvare Chul mette a repentaglio la propria carriera e quello che per desiderio di rivalsa vuole incastrarlo ad ogni costo. Quando, dopo una serie di torture psicofisiche, Chul viene finalmente rimandato a casa, ricomincia la trafila degli interrogatori, delle congetture, delle accuse, questa volta da parte delle autorità nordcoreane. E qui riprende forza, per fortuna, il racconto di Kim Ki-duk, che conclude il film tra notazioni realistiche ed elementi metaforici, come nello scambio dei due orsacchiotti della figlia di Chul, il vecchio orsacchiotto di pezza rattoppato che chiaramente rappresenta il paese di Kim Yong-un, e il nuovo orsacchiotto automatizzato, regalatogli dal poliziotto sudcoreano.
Per quanto mi riguarda, Il prigioniero coreano (ma il film si sarebbe anche potuto intitolare "I poliziotti coreani") rappresenta una delusione nella filmografia di Kim: lo svolgimento di un tema interessante è troppo banale, troppo simile a un bignami del cinema simil spionistico per rappresentare un innovativo contributo del geniale regista sudcoreano al cinema moderno, anche se può far riflettere chi può avere qualche influenza sul processo di eventuale riunificazione delle due mezze Coree. (15 ottobre 2018)
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