Regia di Alex Garland vedi scheda film
Garland imbastisce un film suggestivo e confusionario in cui la frammentazione del racconto e la inconsistenza delle caratterizzazioni conduce dal punto X di una misteriosa zona di rifrazione della materia al punto Y di una rifondazione per sostituzione, tra baccelloni giganti e mitopoiesi di un nuovo Eden policromatico dalle parti delle Everglades
L'improvvisa ricomparsa del marito, sergente del''esercito creduto disperso in missione, rappresenta per la biologa Lena tanto uno shock emotivo quanto un evento inspiegabile e misterioso. Assai più sorprendenti sembrano i fenomeni biofisici che hanno sconvolto un'area circoscritta della costa americana, in cui la stessa accetta di addentrarsi insieme ad un team specializzato di sole donne con lo scopo di salvare la vita dell'uomo, adesso caduto preda di uno stato comatoso senza ritorno.
Terribilis est locus iste
Non ostante la struttura complicata di un racconto che procede tanto per ellissi quanto attraverso una storyline omologata che assolda gruppi di scienziati professionisti da mandare in avanscoperta per il bene della madrepatria e della madreterra (Arrival), il film di Alex Garland ripropone il topos letterario della 'zona', cogliendo la palla al balzo del soggetto tratto dalla trilogia di successo dello scrittore VanderMeer ed avanzando la suggestiva tesi, richiamata dal titolo, di una materializzazione delle pulsioni autodistruttive dell'uomo e di una elaborazione del concetto stesso di vita come manifestazione di una struttura biologica che fa della mutazione e della continua trasformazione il contraddittorio paradigma della propria ineffabile, cangiante identità. Se il facile riferimento al Roadside Picnic del film di Tarkovski viene decisamente refutato dall'autore (del libro), così non si puo' dire dell'omaggio dichiarato fin dai nomi di molti personaggi, al ballardiano The Crystal World, sorta di manifesto di un catastrofismo ecologista che ha ispirato l'omonima trilogia dell'autore britannico e nel quale la trasgressione e la tracotanza delle politiche coloniali dell'uomo bianco (siamo nell'Africa nera, serbatoio incontaminato di bellezze naturali ma anche vaso di Pandora di pandemie prossime venture, dall'AIDS all'Ebola) incrociano le angosce nichiliste che da sempre accompagnano la specie umana, e nel quale la contaminazione ad opera di una misteriosa sostanza cristallina sospende le esistenze delle creature viventi nel limbo senza tempo di una vita senza più morte nè trasformazione. Già autore delle riflessioni escatologiche sulle ricadute di una hybris tecnocratica che vuole infondere la propria coscienza nelle creature positroniche fatte a sua immagine e somiglianza (Ex Machina) pagandone il fio, Garland imbastisce un film suggestivo e confusionario in cui la frammentazione del racconto e la inconsistenza delle caratterizzazioni (una scienziata che cornifica il marito ancora prima di averlo creduto morto, una squadra di sbalestrate mandate alla ventura) ha il solo scopo di condurre lo spettatore dal punto X di una misteriosa zona di rifrazione della materia al punto Y di una colonizzazione biologica aliena in cui i processi imitativi propri della replicazione cellulare sono l'arma a doppio taglio di una rifondazione per sostituzione che richiama i baccelloni giganti di Don Siegel e la mitopoiesi biblica di un nuovo Eden policromatico dalle parti delle Everglades. Se si predilige il soggetto, meglio rivolgersi alla conturbante aliena di Scarlett Johansson ed alle fascinazioni scenografiche di un piccolo oggetto di culto come Under the Skin del tanto vituperato Jonathan Glazer. La piccoletta ex principessa di Naboo (ma in zona Brothers) che si avvicina pericolosamente agli anta regge su di sé l'intero film, anche se non sembra un peso insostenibile, mentre l'attore feticcio Oscar Isaac, non ostante lo richieda la parte, appare più catatonico e inespressivo del solito. Producono Paramount Pictures e Skydance con la distribuzione (limitata) urbi et orbi dell'ubiquitario Netflix.
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