Regia di Alex Garland vedi scheda film
Ve lo ricordate Alex Garland? Il regista londinese si era segnalato nel 2015 per uno degli esordi più belli degli ultimi anni, firmando con Ex-Machina un lungometraggio di fantascienza capace di uscire dal novero dei film dimenticabili. Di quell’esperienza erano piaciute soprattutto la coerenza del punto di vista interno alle vicende del film, insieme alla capacità di rendere la tragedia del protagonista con sguardo netto e pulito, come può esserlo quello di chi è più propenso a suggerire che a mostrare, privilegiando l’ambiguità delle atmosfere alla meraviglia degli effetti speciali, nell’occasione resi invisibili dallo stile sobrio e asettico del regista.
La stessa cosa, purtroppo, non può dirsi a proposito di Annientamento, opera seconda finanziata da Netflix che da ieri la propone nel cartellone dell’omonima piattaforma. Fedele al proprio credo, Garland continua a camminare sul terreno praticato la volta scorsa, trasfigurando il futuribile attraverso alcune delle paure che inquietano il “grande sonno” della civiltà contemporanea.
In Annientamento, oltre alle preoccupazioni ambientaliste presenti nel tema della natura matrigna agli uomini per le minacce che da essa discendono, a farsi largo rispetto alle altre c’è ne sono almeno due: la prima – più visibile e pragmatica – è quella relativa alla proliferazione del virus intesa non solo come pandemia capace di mettere in forse la sopravvivenza del genere umano e, in primis, quella delle studiose capitanate dalla biologa interpretata da Natalie Portman, disposta a rischiare la vita pur di capire chi o che cosa abbia ridotto il marito in stato di coma, ma anche come rappresentazione del confine, geografico (quello esplorato dalla protagonista e dalle sue intemerate colleghe) e metaforico, oltre il quale si cela quel timore nei confronti del diverso da sé che la cultura americana ha ereditato dal periodo della prima colonizzazione. La seconda, invece, che pesca negli abissi dell’inconscio collettivo, riflettendo sulla natura autodistruttiva del genere umano attraverso le considerazioni filosofiche a cui si prestano la maggior parte dei dialoghi presenti all’interno di Annientamento.
E sono proprio le argomentazioni messe in bocca ai protagonisti per giustificare gli avvenimenti che li coinvolgono a pesare sul rendimento della storia, poiché è evidente lo scollamento tra il tono declamatorio e apodittico con cui vengono ostentate e la banalità dei loro contenuti, l’ inconfutabilità dei quali si fatica a riscontrare nell’andamento di una narrazione che procede a tentoni, accumulando ipotesi e situazioni lasciate a se stesse e mai realmente sviluppate.
Se, a questo, aggiungiamo da un lato, la scarsa plausibilità dei personaggi, costretti ad adeguarsi alla moda del momento, e perciò obbligati a certe enfasi o inadeguatezze derivate dal farsi carico di quel surplus di femminismo di cui Hollywood non sembra più poter fare a meno, e, dall’altro, consideriamo la piattezza delle immagini, intrise di riferimenti cinematografici e fumettistici (da Alien a Sfera agli ultra corpi Siegeliani per non dire del francese Moebius) ma incapaci di far viaggiare l’immaginario come sarebbe nelle intenzioni del regista, è chiaro che l’esito di Annientamento finisce per essere inferiore alle aspettative. E anche l’impennata finale, con il senso di concretezza sollecitato dalla necessità di chiudere i tanti filoni narrativi lasciati in sospeso, non riesce a riscattare la sensazione di irresolutezza che pesa sulla regia di Garland.
(pubblicata su taxidrivers.it)
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta