Regia di Godfrey Reggio vedi scheda film
Per affrontare, vivere e respirare “Koyaanisqatsi” bisogna abbandonare l’idea di film collegato a un genere, di cinema ancorato alla componente narrativa che ne è ed è sempre stata la struttura portante.
Nell’opera di Godfrey Reggio coesistono racconto ed assenza di racconto.
Si “narra” di una civiltà (la nostra) che ha abbandonato le proprie radici ancestrali a favore di un progresso che in fin dei conti è regresso.
Di tale fittizia evoluzione il film attua al contempo una critica e un elogio.
Ne scaturisce un flusso emotivo costruito in crescendo; si parte con la natura incontaminata e pura per approdare all’esplicazione audio-visiva di quella che è insieme trama, succo e significato del film, ovvero il titolo stesso, che in lingua amerinda hopi significa vita in tumulto (oppure vita folle, vita tumultuosa, vita in disintegrazione, vita squilibrata, condizione che richiede un altro stile di vita): immagini di metropolitane e città affollate, palazzi che vengono abbattuti, fabbriche, volti anonimi di gente che passa per strada, negozi e centri commerciali nelle ore di punta, macchine industriali in continua e incessante attività. Un’elegia del caos che in fondo non è altro che la vita di tutti i giorni: frenetica, pulsante, passiva e attiva allo stesso tempo, contaminata (o arricchita?) dall’avvento della tecnologia.
Quello in cui viviamo (sembra comunicarci il film) è un mondo che corre, che va avanti inarrestabile ma senza un dove né un perché definiti.
La telecamera fluttua inizialmente sopra i grattacieli per poi addentrarsi tra la gente, negli edifici, violentemente trascinata e piacevolmente scossa da quel torrente che è l’esistenza; esattamente come un extraterrestre intento a studiare e analizzate la razza umana in tutti i suoi dettagli.
Tutto quanto detto finora passa attraverso la lezione di estetica e montaggio del cinema muto di Vertov e seguaci (il film in analisi potrebbe per assurdo essere considerato una sorta di ipotetico remake de “L’uomo con la macchina da presa” del 1929), che alterna superbamente immagini al ralenti ad accelerazioni.
Interessante è poi come certi concetti ritornino più volte nel corso del film sotto forme diverse:
- la figura dell’onda, prima nelle acque dell’oceano, poi nel moto velocizzato delle nuvole e infine in una massa di individui su scale mobili
- le nuvole che, attraversando il cielo, disegnano chiazze di luci e ombre sui monti prima e sulle città poi, quasi come a ricordarci che – nonostante il passare del tempo e al di là dei confini geografici – siamo sempre e comunque parte di un tutto.
Un’opera eterna, di gran lunga superiore agli altri capitoli della trilogia (“Powaqqatsi” del 1988 e “Naqoiqatsi” del 2002), una pellicola della quale la musica di Philip Glass è vera e propria protagonista, una sinfonia della vita e dell’anima che va oltre il cinema.
Capolavoro immenso.
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