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Anastasia, mio fratello

Regia di Steno vedi scheda film

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La recensione su Anastasia, mio fratello

di lamettrie
8 stelle

Un gran bel film, decisamente sottovalutato. Semplice, ma profondo e chiaro. Sordi, che ha scritto anche l’agile sceneggiatura (quasi due ore, ma il film non annoia, specie per i corretti richiami al gangster movie), recita perfettamente certi tratti del cristiano: idealista, sognatore, che a furia di non poter mai pensare male di chicchessia, non riesce a vedere il male reale della vita quotidiana, della storia, ma che comunque mantiene una carica etica straordinariamente positiva, ed efficace, nel piccolo; assetato di giustizia, tanto da non poter passare sotto silenzio i crimini che vede, e da essere disposto a pagare le conseguenze delle sue denunce; fragile, tanto da non riuscire poi a fare ciò che dice: i proclami roboanti si scontrano poi con la realtà, che richiede un coraggio ben superiore, se si vuole essere coerenti fino in fondo.

Notevole è la denuncia contro il mondo americano: ricorda, tra le altre, quella da lui diretta e con De Sica recitata, ne “Un italiano America “ del ’67. Il cliché sembra essere lo stesso (ritrovare un parente stretto allontanatosi da tantissimo tempo in America), ma lo svolgimento è differente: qui si dice che in America ci si fa strada solo con la violenza, e che «è un paese nato nella violenza»; con la bontà non si può che soccombere. Splendido è il contrasto tra il Sordi prete buono, sognatore e ignorante, che crede che l’America sia il miglior paese del mondo, e la realtà: quando gli si aprono tutte le porte, non è per la provvidenza divina, che in America dimostrabilmente avrebbe trovato al sua patria d’elezione, dato che tanti hanno possibilità ampie; tutt’altro, è solo per la caratura criminale del fratello. Questo ossimoro comico è l’aspetto estetico più rilevante del film, che pure si basa sull’autobiografia di un boss, allargata da Alberto Bevilacqua e Amidei.

La corretta condanna dell’ingiustizia e della menzogna statunitensi sono condite dall’altrettanto corretta rilevazione storica del razzismo contro gli italiani, nonché dalla resa sociologica veritiera di Little Italy: imbarazzante, pittoresca, con tratti soprattutto di cui vergognarsi, da italiani, ma interpretata con la giusta lettura storica, come dice il giornalista al processo: il predominio della violenza si toglie soprattutto con le riforme sociali educative, che tolgono di mezzo la miseria. Splendido è lo spaccato, che apparenta questo film a più famosi gangster movie, sul controllo politico che la mafia fa del territorio, lì di New York: l’asservimento dei sindacati e della polizia (e, s’intuisce, della politica stessa) ai malavitosi è una realtà storica sempre troppo taciuta.

Belle le scenografie, e grandi le musiche di Piccioni, adattissime per il film sulla mala americana anni ’70. Qui si era nel ’73, e Sordi non si cimentava per la prima volta in una figura, come quella del sacerdote cattolico, così rilevante per la società italiana: a memoria, aveva recitato il parroco scalcagnato di campagna ne “Il disco, volante” del ’64, di Tinto Brass; il debole frate ne "L'anno del Signore" di Magni del '69; il prete coerente ma emarginato dalla gerarchia cattolica in “Contestazione generale”, di Zampa, del ’70; e poi il clericale ambiguo, falso, in “Quelle strane occasioni” di Comencini del ‘76, e l’indimenticabile pavido Don Abbdondio ne “I promessi sposi” per la televisione dell’89.

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