Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Una storia d'amore mancata. Nel senso che, non si sente l'amore
Si chiudeva sempre alle sei di sera. Salvo occasioni particolari: gruppi di visitatori con cui si era concordato una apertura prolungata, oppure la presenza in sala concerti dei musicisti intenti nelle prove per l'esibizione serale. Una ventina di minuti prima della serrata del pesante cancello, si provvedeva a fare un giro di controllo: che le finestre fossero tutte ben chiuse, le sedie sistemate. Poi, si spegnevano le luci e si metteva in funzione l'allarme. Nella penultina stanza dell'ala nord, camminando a passi lenti indovinando i riflessi del sole sui marmi sconnessi del pavimento, mi piaceva fermarmi a salutare la Madonna ottocentesca, morbida e pallida, e la bimba placida dolce e silenziosa in chiazze di ocra e gialli grumosi. Non mancava, in quei minuti quieti, una sbirciatina compiaciuta al gruppo in porcellana biscuit proveniente dalla Reale Fabbrica Ferdinandea di Napoli: "Il giudizio di Paride". Sebbene le dimensioni fossero (e sono tutt'ora) ridotte, mi stupiva ogni giorno la puntigliosità e la leggerezza estetica verosimile eppur stilizzata con la quale l'autore descriveva la scena. Avevamo un contenzioso, io e quel pezzo di materia: ci trovavo sempre nuovi dettagli e questo mi divertiva ed irritava allo stesso tempo. Lui mi sfidava, io soccombevo. Così, passando, facevo l'occhiolino al giovinetto dal berretto frigio, seduto forse su di un masso, che timido porgeva una mela ad una donna alla sua sinistra: torcendo il busto nella parte più alta, appoggiando il peso sulla gamba destra per bilanciare il movimento, egli allungava il braccio snello e muscoloso verso la figura in piedi, aggraziata e serena. Che accoglieva il dono, per nulla stupita di tale onore. Mentre, a lei di fronte, una severa e florida Atena traeva l'abito sul ventre reggendo con la sinistra lo scudo massiccio e centralmente una Giunone drappeggiata pareva già intenta a fuggire altrove, in alto nell'Empireo, con il suo carro alato trainato da pavoni. Ad evidente similitudine, nella posa, della Dafne di berniana memoria. Accanto alla candida Afrodite, pudicamente coperta da una veste sottile appena rialzata da una mano gentile a gesto vezzoso e solo apparentemente casuale, un putto callipigio che pareva dilettarsi inseguendo una colomba in volo. Il centrotavola mi guardava serafico e vivido, invitandomi ad una analisi che fosse novella ed epifania di sconosciuti particolari e già pregustava la sua vendetta nella mia meraviglia. "Qual beltà" avrei potuto esclamare, se non fosse stato per quella superfluità consistente che veemente inquinava il mio pensiero, negando l'emozione che sempre l'opera d'arte dovrebbe suscitare. E senza emozione, non esiste bellezza: neanche formale. Questo meditavo, di tanto in tanto, attardomi nella sala. E mi pareva di cogliere la mia rivincita, non su Filippo Tagliolini, capo modellatore scelto personalmente da Ferdinando IV, quanto piuttosto sull' estetica vuota ed insensata.
Ieri sera, guardando "L'età dell'innocenza" di Martin Scorsese, quegli stessi ragionamenti di tanti anni fa sono riemersi vigorosi: la bellezza non può essere pienamente tale senza uno scopo. E l'arte, che pure è giusto sia inutile, comunque deve, per essere tale, evocare nel proprio "pubblico" (che sia il più vasto possibile. Perchè non c'è arte senza pubblico, e questo mi pare ovvio ed evidente) un qualche sentimento. Se così non è, fallisce la sua missione e svuota antoreferenzialmente la propria essenza. E dunque, dirò che questo lavoro cinematografico è pregevole come un centrotavola in porcellana bisquit che narra di una scena mitica del tutto avulsa al contesto in cui è stata realizzata, e per la maggior parte dei propri osservatori contemporanei e posteri, del tutto incomprensibile. Dirò che "l'Età dell'innocenza" stupisce per lo splendore della messa in scena fatta di costumi, di scenografie, ma anche di una fotografia intensa e inusuale e di scelte sorprendenti di inquadrature e movimenti della mdp. Dirò che Martin Scorsese ha reso con grande efficacia, attraverso l'estraneazione di una voce femminile off, in terza persona ed onniscente, il rigore delle convenzioni sociali che si fa controllo sui comportamenti personali fino ad intaccare il nucleo intimo dell'essere umano. La freddezza è il registro primo della narrazione e pertanto non solo giusta, ma assolutamente necessaria. Come il candore e la levigatezza di quella materia di cui il centrotavola è fatto. Ma è tutto lì. E lì è tutto. Poca cosa, in fondo. Manca il senso. Lo scopo, diciamo. O se piace di più, l'anima. Il cuore. Manca il sentimento e l'emozione, siano essi corporei o intellettuali. Che ci sono, ci devono essere, nell'arte: anche celati, negati, insultati, depredati, emarginati, sotterrati nel ghiaccio, abbattuti, vanificati, eppure presenti. Come nel romanzo di Edith Wharton, essi restano i grandi assenti (mai trasposizione cinematografica fu più appropriata). Non detti di sicuro, ma neppure suggeriti o indovinati. Perché i personaggi non hanno spessore drammatico e questo è la mancanza fondante, in un film come un romanzo, senza azioni e che si regge solo sulle parole. Senza uomini e donne pulsanti di vita propria ed unicità, l'impianto non regge. Già dall'inizio: lo spettatore resta perplesso davanti alla predestinazione ostinata che lega Newland Archer alla Contessa Ellen Olenska. Il primo, senza mai averla incontrata, se ne erge a paladino anche contro e oltre i dettami di parentela (ed ennesima convenienza sociale). Quasi come avesse scelto a prescindere, con la testa, di esserne cavalier servente. Il sospetto è quello di averla compresa più come "icona" di una ribellione (indipendenza e rifiuto di ogni compromesso) all'ordine costituito piuttosto che come essere umano irripetibile e palpitante. Dimostrazione lampante: l'assenza di struggimento del protagonista maschile, almeno nei primi periodi del matrimonio (prima di rivedere Ellen in Rhode Island e poi a New York). La Contessa, più che innamorata, pare essere una donna dibattuta fra la necessità del sacrificio richiesto al fine di ergersi oltre il ruolo di suppellettile (in questo il romanzo è più chiaro tanto da indugiare nella "povertà" della protagonista, che nel film, parzialmente, scompare) e un certo attaccamento, comunque, proprio a quel dettami sociali tanto vituperati. Nella realtà dei fatti, il film annichilisce ogni pensiero personale, ogni ragionamento sul senso del "bene" e del "male", oscurando le intenzioni e sbiadendo i sentimenti che, tanto più ammutoliti, dovrebbero essere ardenti e strazianti. I personaggi rimangono descritti attraverso i soli "comportamenti" anche nell'intimità e questo è oggettivamente inverosimile perché "a tutto c'è un limite". Anche al controllo di sè. E se l'interpretazione di Michelle Pfeiffer riesce parzialmente a modulare la piattezza delle caratterizzazioni (sebbene, come sempre, ecceda in vezzosità. La Contessa Olenska è donna di ben altra durezza. E spessore. Tra l'altro, rispetto alla dama scura e un po' trascurata della Wharton, l'attrice americana pecca anche di troppa bellezza. L'eccesso di patina è innegabile) altrettanto non fa Daniel Day-Lewis che conferma la sua didascalicità attoriale. La migliore, sicuramente, Winona Ryder che in versione originale (con la sua voce) consegna agli albi cinematografici una May Welland dalle molteplici sfaccettature, non ultime, volontà ed acume dietro una parvente ingenuità. Da molti accostato (non ho ancora ben capito il perché) a "Le relazioni pericolose", rispetto a quest'ultimo manca della vitalità: in qualsiasi versione lo si voglia assaporare.
Tutto perfetto, tutto di alta qualità (a parte la colonna sonora, le cui scelte new age sono un questionabili). Tutto vuoto. Consigliato a chi ama i centrotavola neoclassici molto costosi e molto muti: non dicono nulla e non consentono allo spettatore di dire nulla. Però, non sbagliano: e non possono prendere un'insufficienza. Mai.
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