Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
«Le cose hanno etichette, le persone no». Dopo i memorabili titoli di testa di Elaine e Saul Bass, si conoscono in teatro come in Senso di Visconti («Di solito lascio il teatro prima di quella scena, per ricordare meglio quell’immagine»), si adocchiano, si scrutano nei salotti della New York bene di fine Ottocento. L’amore platonico e segreto tra l’avvocato cinico e rampante Newland Archer e l’anticonformista cugina della moglie, Ellen, non riesce mai a trovare pace. E mai la troverà, vuoi per il corso delle cose, vuoi per il cinismo e il conformismo di lui. E la fine non può che essere triste. Martin Scorsese si adombra nei territori foschi e malinconici di questo melodramma dal passo sommesso eppure dal tono feroce, duro, amaro. Con raffinatezza estenuata, avvalendosi degli ottimi contribuiti nostrani di Gabriella Pescucci ai costumi e di Dante Ferretti per le scenografie (che grandiosa cura nei particolari, che amore per la messinscena d’altri tempi), nonché della romantica partitura di Elmer Bernstein e del montaggio intelligentissimo della fida Thelma Shoonmaker, dipinge un affresco infelice e crepuscolare di un amore malato perché irrealizzabile congenitamente.
Tratto dal capolavoro letterario di Edith Wharton, L’età dell’innocenza è un atto d’accusa all’ipocrisia della società americana sempre uguale nella sua crudeltà (temi scorsesiani: l’individualismo nel senso di solitudine, la ferocia di un gruppo sociale che respinge il perturbante) e all’educazione infida dell’epoca. E poi, certo, è una delle storie d’amore più struggenti di sempre, forse anche tragica per l’assenza di requie, è anche perché l’amore viene ucciso dalle convenzioni borghesi e puritane: quello che potrebbe apparire soltanto come un elegante romanzo decadente è in realtà una degli apologhi più violenti di Scorsese («Questa non è vita» dice lui, «Lo sarà finché farà parte della tua» puntualizza lei in una sequenza molto romantica e senza speranze). Da antologia del melodramma il non-incontro sul ponte al mare, lei rivolta verso il faro, lui dietro che scommette sul suo amore (preziosissima fotografia viscontiana di Michael Ballhaus che lavora emotivamente su bianco, rosso e giallo). Daniel Day Lewis e Michelle Pfeiffer, belli, inquieti, febbrili, disperati sono perfettamente calati nelle proprie parti, senza dimenticare la calda prova di Wynona Ryder. Finale straziante, indimenticabile: «era divenuta la visione completa di tutto ciò che aveva perduto».
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