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Viaggio in Italia

Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film

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La recensione su Viaggio in Italia

di ROTOTOM
8 stelle

Un arazzo d'amore, morte, solitudine. Intimamente autobiografico, sospeso come un sogno.

Alexander Joyce, uomo d'affari londinese, e sua moglie Katherine si rendono conto, dopo dieci anni di vita in comune, che la monotonia sta uccidendo il loro amore. Avendo ereditato una casa in Italia, decidono pertanto di recarsi a Napoli, sia per vedere l'abitazione sia per uscire dalla routine. L'Italia li sconvolge e all'inizio sembra confermare l'opportunità della separazione, già da loro presa in considerazione in patria. Alexander frequenta per un po' una ragazza e Katherine si sente sempre più infelice e disorientata. Tra i coniugi però viene fuori il reciproco attaccamento di fondo quando insieme assistono ad una processione religiosa e capiscono che la loro unione non è finita.

Viaggio in Italia rappresenta per la cinematografia di Rossellini la parte conclusiva della cosiddetta “trilogia della solitudine”, periodo artistico durante il quale il regista abbraccia un cinema più esistenzialista, con caratteristiche biografiche evidenti. Protagonista della pellicola è la moglie, Ingrid Bergman che come in tutti i film girati con Rossellini (Stromboli ? Terra di Dio, 1950; Europa '51, 1952; l'episodio Ingrid Bergman, 1953, da Siamo donne; Viaggio in Italia, 1954; Giovanna d'Arco al rogo, 1954; La paura, 1955), interpreta un personaggio calato in una situazione di estrema esclusione e incomprensione. La solitudine e la paura descritte nei film sono ovviamente riferite ai due artisti uniti nel lavoro e nella vita che suscitarono da una parte l’indignazione dell’opinione pubblica e dall’altra l’ostracismo della critica verso il nuovo corso rosselliniano. Nel 1954 il neorealismo più puro, quello legato all’immediato dopoguerra, è ormai concluso e si sta trasformando in qualcosa d’altro, più leggero, che porterà poi alla nascita della commedia all’italiana.

“La macchina da presa è come una forchetta”. L’aforisma, coniato da Rossellini parlando con François Truffaut, spiega efficacemente il ruolo dello sguardo: la macchina da presa non deve dimostrare nulla, deve solo portare immagini allo spettatore come una forchetta porta il cibo alla bocca.
Rossellini così modifica il suo stile senza rinnegare i temi che da sempre connotano il suo lavoro. L’aspetto descrittivo, il pedinamento e l’improvvisazione sono sempre alla base del suo cinema ed è sempre attratto dalla figura dell’essere umano come strumento d’indagine esistenziale. Quello che cambia è l’urgenza delle storie ormai non più legate alla contemporaneità dell’epoca neorealista e la struttura dei film si libera dalla costrizione della narrazione. Attorno alla figura della Bergman concepisce una storia labile come un sogno incentrata sul tempo, la morte e l’amore.  Le figure di Alex e Katherine sono slabbrate rispetto alla realtà, liberati dalle costrizioni e gli impegni della vita borghese in Inghilterra, si ritrovano in una città e in un tempo che non riconoscono loro. A differenza della rappresentazione dei personaggi dei film neorealisti, i due interpreti non sono inseriti nel paesaggio, non ne fanno parte. Entrambi scivolano su un paesaggio che non ha effetti su di loro, come figure sulle quinte di un teatro mentre la percezione del contesto viene affidata ai rumori della vita reale, i suoni della città, i canti delle lavandaie. Il tutto affogato in un onirico bianco e nero privo di artifici, una luce naturale accecante affidata alla maestria del direttore della fotografia di Enzo Serafin.

Il tempo è fermo, in Viaggio in Italia, bloccati in un presente incomprensibile sferzato da irosi battibecchi, sguardi taglienti, gesti nervosi ma soffocati dalle affettate buone maniere cui sono abituati, Alex e Katherine si allontanano tra loro, lui abbagliato dalla chimera di un possibile nuovo amore che si spegne subito; lei affascinata e turbata al tempo stesso dal passato che sfila sotto i suoi occhi, marmorizzato per sempre nelle immagini delle statue, nei silenzi delle catacombe, nei corpi inceneriti degli scavi di Pompei.

Le guide che accompagnano Katherine nelle sue escursioni culturali hanno le facce e le inflessioni dialettali di quei personaggi di strada che avrebbero potuto interpretare i film del neorealismo, ma ormai si limitano a ripetere meccanicamente i fasti di un passato lontano, sciorinato didascalicamente dietro compenso.
Che Katherine avverta nella lontananza del marito e nella propria freddezza verso di lui un grave senso di fine imminente è chiaro, com’è lampante l’impossibilità di uscire da quella porzione di presente immobile della sua vita. La donna attraversa una Napoli vitale, tellurica, sempre in automobile, scivola sulla realtà cacofonica della città mentre osserva la vita vera che avanza senza di lei. Le strade pullulano di donne incinte, di bambini, di vita che sta ricostruendosi dalle macerie della guerra appena trascorsa. Il futuro – rappresentato dai bambini – à cosa tanto tangibile quanto irraggiungibile come quando si cerca di afferrare qualcosa in un sogno.

Il tempo ricomincia a scorrere impetuoso, quando finalmente il contesto esonda sullo schermo, scollandosi dal secondo piano nel quale era stato relegato: durante la processione annuale di Maiori la folla, seguendo la Madonna e il miracolo appena compiuto (Davvero? O il miracolo deve ancora compiersi e riguarda la vita dei due protagonisti?), rischia di trascinare via Katherine. Solo in quel momento entrambi i coniugi hanno la visione del loro futuro dopo tanti sterili battibecchi: lontani, persi dopo una vita insieme e solo in quel momento dovranno scegliere cosa fare delle loro vite.

Viaggio in Italia appartiene ancora al realismo per l’indagine, lo sguardo documentarista e l’attesa. La struttura del film però è particolare e scorre senza una trama precisa alternando dialoghi, catturando situazioni e gesti colti quasi per caso, scovando sguardi dai volti dei personaggi in una forma di ripresa “in diretta” voluta da Rossellini e ottenuta senza parlare agli attori della sceneggiatura così da poter avere reazioni spontanee e veritiere rispetto alle situazioni proposte loro di volta in volta. Fu proprio questa forma frammentata, quasi casuale e distinta da momenti più che da una narrazione lineare che provocò l’insurrezione dei critici, la stroncatura senza appello e il fallimento del film in Italia.

Film che invece accese le fantasie di giovani critici francesi che stavano covando la dischiusa di un nuovo tipo di cinema da dentro la redazione dei Cahiers du Cinéma e che vedevano in Roberto Rossellini e nel suo cinema slegato dalle convenzioni narrative e linguistiche, l’embrione di quella che sarebbe stata da lì a pochi anni la nascita della Nouvelle Vague.

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