Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film
Il meno capito (all’epoca) dei film di Roberto Rossellini è diventato, nel corso del tempo, uno dei lavori più amati del regista di Paisà. Merito della critica francese, della nuova generazione di autori che di lì a poco si sarebbe affacciata sul cinema internazionale e anche, perché no, di buona parte di un pubblico serio e maturo cresciuto con un briciolo di senno. Di per sé, è un film anche abbastanza semplice: una coppia di inglesi in latente crisi affettiva sverna a Napoli per vendere la villa di uno zio defunto e si scontra con le proprie debolezze e le proprie paure. Niente di complicato, se non fosse che l’essenzialità è di gran lunga quanto di più complesso si possa ottenere.
Rossellini spoglia la scena di fronzoli inutili, lascia parlare l’immagine e ciò che la abita coniugando narrazione e descrizione con una immediatezza autentica e limpida. Anche quando non sembra accadere niente, c’è sempre un angolo in cui prende vita qualche cosa di destabilizzante nella sua purezza, sia il fumo di un piccolo cratere originato dalla fiammella di un accendino alla solfatura di Pozzuoli o l’inversione di marcia dell’auto del protagonista per caricare una triste prostituta in una calda notte napoletana. E sono questi i momenti in cui i tormenti della coppia (reale soggetto del film) raggiungono l’apice dell’intensità mantenendo il grado zero dell’enfasi retorica.
Se poi volessimo approfondire senza chissà quale pretesa, potremmo anche dire che Viaggio in Italia è un aggiornamento del romanticismo di viaggio, quando gli artisti del Nord Europa scendevano nelle terre italiche alla ricerca delle rovine del tempo perduto (qui c’è quel mondo che dovremmo riscoprire fatto di luoghi come il cimitero delle Fontanelle o il museo nazionale o i resti di Pompei), filtrato attraverso l’evocazione spirituale della poesia che porta fuori dal tempo l’azione e piomba il film in una dimensione quasi eterea. Il finale coniuga qualunque cosa antitetica (alto e basso, nobile e popolare, discrezione e folklore, singolo e massa) in un miracolo della vita che sa ritrovare l’urgenza intima dell’unione. Se George Sanders conferisce al suo Alexander la dignità, gli usi e i costumi del tipico inglese d’altri tempi, Ingrid Bergman brilla di luce propria ed è francamente impossibile da descrivere con parole normali.
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