Regia di Roberto Rossellini vedi scheda film
“Tempio dello spirito, non più corpi, ma pure ascetiche immagini”
La fine non un punto di arrivo, quanto semmai una nuova evoluzione.
Roberto Rossellini, nella ricerca formale e stilistica di un nuovo realismo, è giunto nel suo percorso artistico ad una multiforme realtà, libera dai limiti fisici e da ogni orizzonte spazio-temporale; il neorealismo è divenuto il nuovo cinema, liberato dalle sclerotizzazioni della parola, della scrittura e dei perché dietro i comportamenti umani, dando vita ad immagini pure, svincolate da qualsiasi soggezione, entrando così in piena risonanza emotiva con gli stati d’animo dei personaggi.
Viaggio in Italia (1954), abdica ad ogni pretesa di “perfezione”, rinunciando una sceneggiature scritta giorno per giorno, inseguendo così una realtà che è essa stessa a risultare imperfetta, incomprensibile ed irrazionale nei suoi “schizzi privi di un ritratto definito” (Andrè Bazin).
Mancano pretese totalizzanti, conclusioni definitive. Gli stessi Katherine (Ingrid Bergman) e Alex (George Sanders), abdicano immediatamente a qualsiasi pretesa conoscitiva categorica, perché sono in primis loro dopo otto anni di matrimonio ad essere dei perfetti estranei tra loro.
Nelle disarmonie della vita di coppia, emerge una sintonia perduta, non tanto in ciò che si dicono, ma nel non detto, una noia infinita, sguardi di fastidio, l’essere continuamente di spalle al proprio partner, persino il cibo, rivela più di tante discussioni, come gli spaghetti arrotolati con buona mano dall’uomo, mentre la donna con gran difficoltà a stento riesce a sollevarne dal piatto un due o tre per volta, un unisono sentimentale, di intenti ed armonia venuto del tutto meno.
Una coppia che detesta ritrovarsi da sola, per non cadere preda di irruenti moti di gelosia, obbligata a separarsi per non doversi dividersi. Alex è un uomo dal carattere borioso ed arrogante, mentre Katherine è una donna molto sensibile ed emotiva nell’affrontare le cose.
L’affare della vendita della villa a Capri, non può che ricadere su Alex, annoiato dalla propria vita coniugale, ricercando sollazzi vari tra compagnie di amici e donne, nel tentativo di colmare il vuoto, un concetto astratto che non fa rima con il niente, ma risuona nell’assenza di un mondo in grado di parlare, se noi gli consentiamo di farlo.
Concetto forse, che viene reso in modo ancor più affascinante, ma al tempo stesso più complesso e astratto, da Katherine nei suoi pellegrinaggi giornalieri a Napoli.
La donna, sempre accompagnata da una guida narrante, visita luoghi che hanno a che fare con la morte; il museo di Napoli con le sua statue greco-romane, dai corpi scultorei valorizzati da una fotografia espressionista, rappresentanti imperatori sanguinari e miti violenti, l’antro della Sibilla a cui gli amanti del passato si rivolgevano per sapere del destino dei loro amori, i campi Flegrei immersi nei fumi emanati dalla lava a 400 gradi e le “Fontanelle” con quei teschi dimenticati senza più identità, a cui molti rendono un proprio omaggio.
I piccoli altarini sparsi qua e là, tra i vicoli di una metropoli partenopea, traboccano di storia, morte e vita in ogni suo angolo, tra carrozze trasportanti i morti, che richiamano alla mente vecchi amori lontani nel tempo, così come le numerose donne in cinta o con bambini, svelano un disagio interiore verso una maternità mai conosciuta e forse troppo affrettatamente accantonata subito dopo il matrimonio.
Scevro da inutili psicologismi, Rossellini unisce immagini, vissuto emotivo e storia, tramite il letterale disseppellimento di essa, portando alla luce, dopo quasi 2000 anni di oscurità, i calchi pompeiani in gesso di un uomo e la donna, abbracciato nel loro ultimo gesto prima della morte.
Un sentimento fissato nell’eternità tramite “l’immagine-tempo” (Gilles Deleuze), contrapposto al pianto istintivo, di una Ingrid Bergman, che in tale singolo frame catturato dalla macchina da presa di Rossellini, raggiunge picchi interiori di risonanza emotiva, che le fanno raggiungere in quell’effimero istante, la vetta espressiva più alta dell’intera carriera.
Il processo di scarnificazione dei significanti, raggiunge l’essenza intima delle immagini, dai molteplici significati interpretativi, secondo l’occhio sensibile dello spettatore, immerso tra intellegibilità, astrazione ed oscurità, arrivando a lambire il senso del mistero in un rito collettivo finale, tra smarrimento e ritrovamento, che apre alla sempre eterna “speranza”, seppur tra i molti enigmi, dovuti all’insondabilità dei moti dell’animo umano, che rinnega ogni ricostruzione del “verosimile” o di una sciatta drammaturgia, a favore di quel semplice ed immediato “dimmi che mi ami”.
Nonostante la presenza di due attori premi oscar come protagonisti, Viaggio in Italia dovette attendere oltre un anno per essere distribuito nei cinema, riscontrando scarsissimo successo di pubblico in tutto il mondo ed una generale indifferenza critica italiana, con talune riviste del settore che neanche si occuparono di analizzare l’opera. Il successo lento ma inesorabile, fu dovuto ai sempre-eterni francesi della redazione dei Cahiers du cinema, letteralmente estasiati da un film che germoglia spontaneamente, facendo a meno di qualsiasi prigione testuale. Qualche anno orsono, Filmtv rivista, fece un sondaggio tra i critici nostrani, per decretare il miglior film italiano di sempre, al primo posto si piazzò proprio Viaggio in Italia, la cui incontrovertibile modernità, “fece invecchiare all’istante il resto del cinema, di almeno 10 anni” (Jacques Rivette).
Film aggiunto alla playlist dei capolavori: //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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