Regia di Elia Kazan vedi scheda film
Ciò che una volta presente non ci turba, nell’attesa ci fa impazzire (Epicuro)
Sai come ci si sente quando si ha bisogno di una risposta che non arriva mai? Quando si è bloccati nell’attesa e non è più possibile aspettare?
«Tua madre non è morta come invece ha voluto farti credere tuo padre per coprire la vergogna.»
Sai cosa si prova dentro l’anima quando si ha l’estrema necessità di una verità che vada oltre i ghigni e le allusioni ma che nessuno intende regalarti fino in fondo e tu continui così a restare sospeso nell’ambiguo sussurrio del chiacchiericcio di paese?
«Tutti i vecchi di Salina sanno come sono andate veramente le cose fra loro due. Domanda a tuo padre che tipo di donna è stata quella che si è sposato e che ti ha messo al mondo! E fatti raccontare chi e perché gli ha davvero procurato quella brutta ferita.»
Cal è testardo e inquieto ed ha bisogno di sapere, “DEVE” sapere. Tutto. Le sue origini. Che cos’è il dentro di quella donna che dopo averlo messo al mondo lo ha ripudiato e che non è morta come gli è stato fatto credere… capire le ragioni che l’hanno fatto diventare un rifiutato pieno di odio e di gelosia…. Ha bisogno di dare un senso a quel suo sentirsi “cattivo” e fuori posto, persino inviso alla famiglia.
«A Monterey c’è un bordello, lo sai cosa vuol dire, vero? Lei ne è la proprietaria e le frutta ancora un mucchio di quattrini quel mestiere infame.»
I tasselli della verità cominciano a ricomporsi fra insinuazioni, reticenze e piccole ammissioni che finalmente rompono il silenzio di suo padre, ma Cal sa che è con lei che deve parlare: è solo lei, sua madre che può sciogliere i suoi dubbi. Ed è da lei che deve pretendere risposte ai suoi interrogativi che lo aiutino a capire le ragioni di un disadattamento – il suo – che è anche sensoriale in quel sentirsi diverso e sempre fuori posto e sintonia.
«Tua madre era una puttana, una poco di buono senza una morale.»
Cal crede di odiarla quella donna e il suo mestiere, ma conosce anche bene come è fatta dentro, perché anche lui avverte in sé le stesse pulsioni verso ciò che ritiene essere il male. Ha bisogno di parlarle, di sapere cos’è che le ha fatto abbandonare oltre al marito, lui e suo fratello Aron, a rinnegare insomma la sua maternità. E’ per avere quelle risposte che l’attende impaziente e timoroso seduto sui bordi del marciapiede che costeggia la strada principale del paese dopo aver affrontato il viaggio che separa Salina da Monterey imboscandosi temerariamente sul tetto del vagone di un treno merci.
La guarda passare ma non osa fermarla, fare il primo passo. La sua attesa diventa sempre più spasmodica, impaziente e disperata. Lei gli passa acanto, quasi lo sfiora, ma continua ad ignorarlo come se non lo vedesse nemmeno e questo accresce ulteriormente la sua rabbia.
Decisa ed elegante, cammina veloce con la veletta del cappello che copre un volto precocemente avvizzito, segnato dai solchi profondi delle rughe che sfregiano l’antico splendore di una bellezza ormai da tempo sfiorita che lascia trasparire evidenti tracce di un tormento interiore solo in parte sopito. Le sue mani offese e deformate dall’artrite nascoste sotto spessi guanti che ne celano a tutti la visione, stringono col senso del possesso, la borsa piena del denaro dei suoi loschi guadagni che sta andando a depositare in banca come fa ogni giorno.
Cal non può rinunciare al suo bisogno di capire perché è fatto così, di scoprire la ragione del suo sentirsi incompreso e “marchiato”. Di provare a rintracciare insomma proprio in quella donna, le origini non solo della sua diversità affettiva che lo tormenta e che è forse la ragione che lo fa essere così poco considerato da suo padre, quasi che nutrisse per lui un segreto risentimento, ma anche del suo essere costretto a mendicare persino un gesto di tenerezza e di amore da quell’uomo inflessibile pieno di principi morali e religiosi che sembra avere occhi solo per Aron, suo fratello.
Segue la donna nel suo incerto cammino, sempre più nervoso e agitato, sperando inutilmente che sia lei ad accorgersi della sua presenza, a rompere l’indugio, a fare il primo passo.
Terribile attendere una parola o un gesto che non arriva… Lei sembra solo contrariata (ed anche un po’ turbata) dall’intrusione di quel ragazzo un po’ strambo dallo sguardo sbilenco che la sbircia di sottecchi… ma fa l’indifferente mentre lentamente, disbrigate le sue faccende, rientra nel bordello in cui abita e del quale è la tenutaria Ha certamente capito chi è e perché è rimasto rabbioso ad aspettarla fuori dalla porta, ma non intende riaprire un capitolo già chiuso da troppo tempo nemmeno quando al colmo dell’impazienza, Cal getta sassi contro la sua finestra alla ricerca di un’attenzione nuovamente negata.
Cal aspetta e non si scoraggia: resta lì perduto nell’attesa, capace solo di fissare il vuoto con le lacrime sul viso che accarezzano le labbra frementi di rabbia e il cuore che sembra voglia frantumarsi da un momento all’altro… il suo ritorno a Salina è sconfortato, ma la notte seguente è di nuovo lì, ancor più determinato, davanti a quel locale malfamato, in attesa del momento più propizio per intrufolarcisi dentro… Questa volta sua madre non potrà negarsi.
Ecco!!! è già entrato, confuso fra il fumo delle sigarette e l’acre odore di alcol e sudore che impregna l’aria. Gira furtivo nel bar e fra i corridoi fino alla stanza dove la donna si è appartata… Adesso saprà finalmente perché è così… conoscerà chi lo ha fatto diverso… Superata d’impeto la porta, sono infine l’uno di fronte all’altra: si scrutano quasi in cagnesco ma poi si (ri)conoscono restando però stranieri l’uno all’altra. Poi tutto diventa scuro e si confonde di nuovo dentro la sua mente mentre viene trascinato fuori violentemente con una forza bruta che lo sta sradicando dallo stipite della porta a cui è aggrappato mentre con furia disperata grida la parola “mamma”, troppo a lungo negata, con uno strappo tanto crudele e prepotente che sembra volerlo nuovamente separare dalle viscere di quella donna che lo ha partorito e poi dimenticato.
E’ tutta una lunga, interminabile attesa la vita di Cal… disperata e angosciante come la sua inutile ricerca d’amore e d’attenzione, perché nemmeno il “sapere” è riuscito ad attenuare quella lancinante sofferenza che l’opprime. Gli ha dato semmai la conferma che inconsciamente ha sempre percepito la ragione che lo ha reso così inviso a se stesso e alla sua famiglia, anche se la sua, più che malvagità è stata soprattutto una difesa per proteggersi da una incolmabile solitudine interiore : lui, come sua madre, è l’erba cattiva, il figlio degenere marchiato da una “biblica” maledizione che lo identifica già nel nome, così che la sua sorte e il suo futuro sono forse già tracciati e niente li potrà cambiare: Abele e Caino … Aron e Cal… il buono e il cattivo… la vittima sacrificale e il suo carnefice…
Un “fratricidio” consumato o indotto che sia, non fa differenza, rimane un’infamia. Ed è attraverso la rabbia di un momento che si compirà un destino già segnato, proprio come è scritto in quel sacro libro che il padre legge ogni sera che narra di un Caino ripudiato dopo il suo delitto e costretto a nascondersi alla luce impietosa della luna per non soccombere alla vergogna.
Otterrà mai il perdono di suo padre? E soprattutto riuscirà ad averlo prima che sia troppo tardi?
“La porta della camera di Adam era aperta e si sentiva un rumore di voci.
Cal entrò e chiese: ″Che sta succedendo?″
Li lo guardò e accennò con la testa al telegramma aperto sulla tavola.
“E’ morto tuo fratello″ disse, ″Tuo padre ha avuto un colpo″.
Cal si slanciò lungo il vestibolo.
Li disse: ″Torna indietro. Ci sono il dottor Edwards e il dottor Murphy. Lasciali tranquilli″.
Cal si fermò davanti a lui. ″E’ grave? Ditemi se è grave″.
″Non lo so″. Parlava come se stesse ricordando qualcosa di molto antico. ″E’ tornato a casa stanco. Ma io dovevo leggergli il telegramma. Era un suo diritto. Per circa cinque minuti ha seguitato a ripetere il testo ad alta voce. E poi è stato come se fosse arrivato al cervello e là fosse esploso″.
″Non ha mica perso conoscenza? ″
Li disse stancamente: ″Siediti e aspetta, Cal. Cerca di farci l’abitudine. Fa’ come faccio io″.
Cal prese il telegramma e ne lesse il testo tetro e dignitoso.
Il dottor Edwards uscì dalla stanza con la borsa in mano. Fece un breve cenno con la testa, e andò via chiudendosi dietro la porta senza far rumore.
Il dottor Murphy posò la borsa sulla tavola e sedette. Sospirò. ″Il dottor Edwards ha incaricato me di parlarvi″.
″Come sta? ″ domandò Cal.
″Vi dirò quello che sappiamo. Ora siete voi il capofamiglia. Sapete cos’è un colpo?″ Non aspettò la risposta. ″E’ una perdita di sangue al cervello. Certe zone del cervello sono colpite. Ce n’erano già state prima, di queste perdite, ma meno gravi. Li ne è al corrente″.
″Sì″ disse Li. Il dottor Murphy gli lanciò un’occhiata e poi tornò a parlare a Cal. ″La parte sinistra è paralizzata. La destra solo parzialmente. Probabilmente ha perso la vista dall’occhio sinistro, ma ancora non si può dire. In altre parole le condizioni sono quasi disperate″.
″Può parlare? ″
″Un po’, ma con difficoltà. Non fatelo stancare″.
Cal cercava le parole. ″Potrà rimettersi? ″
″Ho sentito parlare di casi di riassorbimento quando le condizioni sono così gravi, ma io non ne ho mai visto uno″.
″Volete dire che morirà? ″
″Non sappiamo. Potrebbe vivere una settimana, un mese, un anno, due anni. Come potrebbe morire stanotte″.
″Mi riconoscerà? ″
″Questo lo vedrete da voi. (…) Mi dispiace, Cal. Coraggio! Dovete farvi solo coraggio″. (…) Fece per mettere una mano sulla spalla di Cal, ma lui si scostò e si avviò verso la camera del padre.
La testa di Adam era appoggiata sui guanciali. Il suo viso era calmo ma pallido; la bocca era serrata, né sorridente né disapprovante. Gli occhi erano aperti, molto limpidi e profondi come se si potesse vederne il fondo e come se essi potessero vedere il fondo delle cose. Si volsero lentamente verso Cal mentre entrava nella stanza, si fissarono prima sul petto, poi salirono fino al viso e vi restarono fissi.
Cal sedette sulla sedia accanto al letto. Disse: ″Mi dispiace, babbo″.
Gli occhi ammiccarono lentamente come fanno i ranocchi.
″Mi senti, babbo? Capisci quello che dico? ″ Gli occhi non cambiarono espressione né si mossero. ″Sono stato io″ gridò Cal. ″Sono io il responsabile della morte di Aron e della tua malattia. L’ho portato io da Kate. Gli ho fatto vedere io sua madre. E’ per questo che se n’è andato. Non vorrei mai far niente di male ma lo faccio lo stesso″.
Poggiò la testa sul letto per sfuggire a quegli occhi terribili ma non ebbe risposta. Continuava a vederli quegli occhi. Sapeva che sarebbero rimasti con lui, una parte di lui, per tutta la vita.
(…)
Li disse: ″Adam! ″
I grandi occhi azzurri erano in cerca della voce e finalmente trovarono gli occhi marrone e lucenti di Li.
″Adam, non so cosa possiate udire o capire. Quando avevate l’intorpidimento alla mano e gli occhi si rifiutavano di leggere, io scoprivo sempre tutto quello che potevo. Ma certe cose non le potete sapere altro che voi. Può darsi che voi, dietro i vostri occhi, siate vivo e sveglio, oppure che siate avvolto in un sogno grigio e confuso. Forse percepite solo luce e movimento, come un bambino appena nato. Avete un guasto al cervello e forse si è verificato in voi qualcosa del genere. La vostra gentilezza può essere diventata bassezza d’animo, e la vostra cupa onestà qualcosa di stizzoso e accomodante. Queste cose le sapete solo voi. Adam, mi sentite? ″.
Gli occhi azzurri dettero un guizzo, si chiusero lentamente, poi si riaprirono.
Li disse: ″Grazie, Adam. So quanto sia difficile. Ma devo chiedervi una cosa ancor più difficile. C’è qui vostro figlio, Caleb… l’unico che vi sia rimasto. Guardatelo, Adam! ″
Gli occhi pallidi guardarono finché non trovarono Cal. La bocca di Cal si mosse ma era secca e non uscì alcun suono.
La voce di Li intervenne: ″Non so quanto vivrete ancora. Forse per molto. Forse per un’ora. Ma vostro figlio vivrà. Si sposerà e i suoi figli saranno tutto ciò che rimane di voi″. Li si asciugò gli occhi con le dita, ″ha fatto una cosa suggeritagli dall’ira, perché credeva che voi lo aveste respinto. Il risultato è stato la morte di suo fratello″.
Cal disse: ″Li… non potete farlo″.
″Devo″ replicò Li. ″Anche se questo lo uccide devo farlo lo stesso. E’ mia, la scelta″. Sorrise tristemente e citò: ″”Se c’è una colpa essa è la mia”″. Raddrizzò le spalle. Disse seccamente: ″Vostro figlio per questa colpa è estraneo a se stesso più di quanto possa sopportarlo. Non schiacciatelo sotto il peso del vostro rifiuto. Non schiacciatelo, Adam″. Il respiro di Li si fece sibilante. ″Adam, dategli la vostra benedizione. Non lasciatelo solo con la sua colpa. Adam, mi sentite? Dategli la vostra benedizione!″
Un terribile splendore si accese negli occhi di Adam: li chiuse e li tenne chiusi. C’era una riga tra le sopracciglia.
″Aiutatelo, Adam… aiutatelo. Dategli una possibilità. Fate che sia libero. E’ la sola cosa che abbia l’uomo per distinguerlo dagli animali. Liberatelo! Beneditelo!″
Il letto sembrò tremare per l’enorme tensione. Il respiro di Adam si accelerò per lo sforzo e poi, lentamente, la sua mano destra si alzò e subito ricadde.
Il viso di Li era stralunato. Si avvicinò a capo del letto e asciugò il viso madido del malato con l’orlo del lenzuolo. Abbassò lo sguardo su quegli occhi chiusi. Li mormorò: ″Grazie, Adam… grazie amico mio. Potete muovere le labbra? Formate il nome di vostro figlio″.
Adam alzò gli occhi con un’aria di mortale stanchezza. Socchiuse le labbra, ma non riuscì a pronunziare la parola. Provò un’altra volta. I suoi polmoni si riempirono, emise l’aria e le sue labbra modellarono il sospiro sfuggente. La parola sussurrata sembrò rimanere sospesa a mezz’aria: «Timshel!»
Poi i suoi occhi si chiusero e si addormentò. (John Steinbeck – East of Eden – traduzione di Giulio De Angelis)
Questo il finale scritto da Steinbeck, riproposto - con qualche piccola variazione ma sostanzialmente immutato nella tesi più che del perdono, dell’assoluzione – anche da Osborn (lo sceneggiatore) e da Kazan, che comunque non lo ha mai condiviso fino in fondo (lo trovava poco convincente) come si potrà meglio rilevare da queste brevi note riprese dal suo diario:
Non c’è vero dramma a meno di avere situazioni che spingano il protagonista al suo limite estremo. Alla fine devi fare in modo che il personaggio principale venga messo con le spalle al muro. Non devi dargli tregua insomma, così non ha vie di scampo e deve affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
Ne La valle dell’Eden invece in quelle ultime sequenze, la presa su Dean risulta molto più allentata rispetto a tutto ciò che la precede, il che fa sì che quel finale risulta in qualche modo meno veritiero. Non bisognerebbe mai potersi chiedere: e poi che succede? Quel che succede in un’opera drammatica dovrebbe risultare definitivo! Niente via d’uscita, nessuna concessione alla speranza. Il dramma è la più dinamica delle arti. E la pellicola, per sua stessa natura – scorre! viene fatta scorrere – ha una dinamicità maggiore di ogni altra forma artistica: nei primi metri di pellicola si fa partire un movimento in crescendo che deve acquisire carica e slancio lungo tutto il tragitto fino a schiantarsi con una forza d’urto accentuata contro un muro che la fa deflagrare proprio negli ultimi metri conclusivi: una tensione espansiva che in prossimità della parola “fine” non dovrebbe dunque mai attenuarsi né diventare sdolcinata. Il sentimentalismo è nemico del dramma. Annacqua il conflitto. E’ fratello dell’autocommiserazione. Ed è solo la durezza che colma il pubblico della più grande tra tutte le emozioni drammatiche – lo sgomento. Sono queste le ragioni che mi rendono un po’ perplesso davanti alle sequenze terminali di questa mia ultima fatica, e adesso so perché: avrei dovuto seguire l’impulso più che il cervello e far morire il vecchio senza una parola buona per Dean così che il ragazzo (e la parte di me stesso che gli si riflette dentro) dovesse poi metterci più tempo a risalire la sua china, o al limite, non riuscisse proprio a farlo. (mia traduzione dall’originale).
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Per me La valle dell’Eden è un film molto personale; è quasi la storia della mia vita. Prima odii tuo padre; poi ti ribelli; infine gli vuoi bene e ti riconcili con te stesso, lo capisci, lo perdoni e ti dici: “Sì, è fatto così”, e non hai più paura. (Elia Kazan)
Questo turgido melodramma che vira verso la tragedia girato da Kazan agli inizi dei ’50, è una delle sue opere più personali e sentite, proprio perché riflette davvero molto di se stesso: “Sono un regista mediocre, tranne quando un’opera teatrale o un film toccano una parte della mia esperienza di vita. – ebbe a dire a suo tempo - Se non sono almeno un po’ in sintonia con il tema principale non mi muovo. In qualche modo il cuore del film deve essere presente anche nella mia vita. Non tutto è sempre così semplice però perché all’inizio c’è solo qualche pallida ’intuizione’. Con East of Edern per esempio, dopo aver letto il romanzo provai una fortissima emozione edissi a me stesso : «Non so perché, ma le ultime novanta pagine di Steinbeck mi entusiasmano». Era davvero la storia di mio padre e me, anche se ci misi molto tempo a rendermene perfettamente conto. Fu quando con Paul Osborn cominciai a lavorare alla sceneggiatura nella sua versione definitiva che mi accorsi che era proprio così che stavano le cose. Anche io ero sempre stato il ragazzo cattivo, anche se pensavo di essere quello buono. In modo più o meno sottile, tutti i film sono autobiografici, ed è inevitabile - almeno per me – che (come in questo caso), qualcosa della mia vita si esprima nell’essenza del film. A quel punto, lo so per esperienza e non solo intuitivamente che sto sentendoci vibrare dentro qualcosa di me, delle mie lotte, del mio dolore, delle mie speranze”.
Vedendo il film, non si può che concordare, poiché si avverte perfettamente l’esistenza di questa profonda simbiosi non soltanto emozionale, anche se – personalmente – credo che il romanzo di Steinbeck gli interessasse non solo perché è la storia di un figlio che cerca in tutti i modi di piacere a un padre che lo disapprova, ma anche (ed è tutt’altro che secondario) perché questo rapporto di reciproca ricerca, “inseguimento” affettivo e misconoscimento tra padre e figlio, era perfetto per consentirgli di mettere in scena – parallelamente – le laceranti contraddizioni del puritanesimo, o meglio ancora, di stigmatizzare quell’assolutezza tutta puritana che fa dire: qui sta il bene, là il male senza alcuna possibile sfumatura in mezzo e ancor meno eccezioni (tentavo di dimostrare a mia volta che nella vita reale invece il bene e il male non sono classificabili a senso unico, perché spesso si confondono in un groviglio tanto inestricabile, che è molto difficile – per non dire impossibile - distinguerli e separarli in modo strettamente razionale – sono ancora parole di Kazan tradotte da me): tutto questo lo si evince proprio da come lui riesce non solo a non esprimere giudizi comportamentali, ma anche a trovare un perfetto equilibrio nel racconto (i rapporti causa-effetto delle azioni e delle loro conseguenze per quel che riguarda il modo di narrate; i ritmi solenni da saga sapientemente alternati ai momenti concitati quasi da psicodramma che illustrano i conflitti privati per quel che concerne la forma) dentro a un’opera percorsa da un’intima, profonda disperazione intessuta di furia e malinconia (potremmo definirla zeppa di “epica steinbeckiana”- e chi ha letto i suoi libri, soprattutto quelli del suo periodo più fecondo, sa a cosa alludo) tra la Storia con la esse maiuscola (lo sfondo temporale, definibile come la “cornice”dentro a cui i fatti sono incastonati, è a mio avviso perfetto: il perbenismo bigotto del puritanesimo del Sud del 1917 e seguenti, le lacerazioni sociali ed economiche dell’entrata in guerra dell’America all’interno di un conflitto sempre più mondiale, le reazioni isteriche e i pregiudizi razziali contro i naturalizzati tedeschi divenuti improvvisamente nemici da combattere) e le contrapposizioni e i drammi del privato che qui ne sono stretta conseguenza.
La regia di Kazan è davvero magistrale (indubbiamente una delle sue migliori prove) nel tracciare i tempi (e i modi) di questa memorabile e “aggiornata” riproposizione filmica della parabola di Caino e Abele (è una parafrasi o un’interpretazione in chiave psicanalitica la disperata ricerca di una salvezza affidata a un gesto e a una parola proposta dal romanzo di Steinbeck e dal regista che approfondisce l’analisi – e la difesa – di chi si è fatto“traditore” per essersi sentito considerato poco e male dentro a un’opera in cui – di fatto – non esistono né buoni né cattivi – almeno in senso lato, come si è già detto - ma solo vittime delle circostanze di un percorso di vita in cui solo l’amore potrebbe rappresentare una fonte di redenzione spirituale e di salvezza?)
Se si eccettuano le piccole riserve – più che altro contenutistiche - sul finale infatti (ci ritorneremo meglio più avanti) tutta la costruzione è sorretta da uno stile impeccabile privo di smagliature (e di momentanei cedimenti qui del tutto assenti) che ne esalta il pathos e provoca il coinvolgimento sensoriale dello spettatore. Non ci sono insomma difetti nelle singole scene (molte delle quali sono da antologia) grazie anche alla prova maiuscola di tutto l’eccellente cast impegnato a rendere intensamente credibili proprio attraverso la sublime arte della recitazione, i ritmi spasmodici e la tensione richiesti dal regista[1] in quel loro incedere sempre più travolgente (anche fisicamente) verso la catastrofe conclusiva e dove in mezzo a qualche punta di diamante, forse il solo Richard Davalos (fisicamente centrato nella parte del figlio preferito) è un piccolo gradino al di sotto degli altri sul piano strettamente drammaturgico – anche a causa di una sceneggiatura che invece di aiutarlo lo penalizza alquanto – che gli impedisce di acquisire il giusto peso per diventare a sua volta un adeguato contrappeso dialettico all’angoscia… (“dostoevskiana”: si può dire?) di James Dean/Cal (sulla cui interpretazione torneremo più avanti).
La sceneggiatura
Steinbeck era stato per Kazan, lo sceneggiatore (nel 1952) di Viva Zapata!(uno dei film più interessanti e amati dal regista me che, pur fra tante recensioni positive, ebbe il torto di far andare in rosso i conti di Zanuck perche basato su un plot troppo politicizzato tacciato di proto-comunismo).
Proprio grazie a questa consolidata conoscenza e alla stima reciproca che li univa, lo scrittore accettò la proposta di Kazan – qui anche produttore esecutivo – di lavorare nuovamente insieme per un adattamento in immagini del suo romanzo in tre tomi “East of Eden”.
L’idea iniziale era stata quella di trasferire sullo schermo l’intera storia, ma nel lavorarci sopra si accorsero che per fare questo, considerata la quantità degli eventi, avrebbero dovuto sviluppare un film che non poteva durare meno di dieci ore assolutamente impossibile da proporre e realizzare. Dovettero di conseguenza scendere a più miti consigli abbandonando questo mastodontico progetto e Steinbeck accettò l’idea di concentrarsi solo sul tomo conclusivo di questa lunga epopea familiare (il terzo appunto) accettando tutti i rischi (e anche i possibili squilibri) che la scelta di un approccio tanto parziale poteva presentare venendo così a mancare la diretta e completa conoscenza delle radici lontane che origineranno le tragedie del finale.
Lavorarono così in stretta connessione a un primo trattamento che tentava di ridurre la dimensione epica del romanzo per concentrarsi invecesulla storia di un padre e dei suoi due figli privilegiando soprattutto la figura di Cal, il più introverso. Il procedimento si rivelò però ben presto più faticoso e insoddisfacente del previsto, anche perché Kazan era segretamente preoccupato dello stile troppo letterario di Steinbeck che rischiava di prendere il sopravvento e che – così poco abituato al cinema - tendeva a diventare legnoso nei dialoghi. Il regista temeva insomma che si potessero ripresentare gli stessi errori che avevano reso farraginosa e impopolare la sceneggiatura (e reso tortuosamente problematico il risultato anche economico dell’impresa) di quel Viva Zapata! che in piena era maccartista non era riuscito a portare in sala un adeguato numero di spettatori paganti almeno sufficiente per ripagarne i costi).
Allo stesso tempo però intendeva evitare di offendere lo scrittore che dopo i fasti del passato, si trovava nella spiacevole condizione (disorientante) di non essere più un beniamino della critica letteraria come lo era stato una volta. Il problema principale avvertito da Kazan, era proprio quello di non riuscire a trovare nel loro lavoro comune un adeguato inciso narrativo che permettesse di innescare nella storia (e portasse alla conoscenza dello spettatore senza essere pedanti o didascalici) almeno qualche accenno necessario per far comprendere i fatti più salienti riferiti a ciò che era accaduto prima, nei due antecedenti tomi, a partire proprio dal rapporto altrettanto conflittuale intercorso fra il padre e la madre, comprese le ragioni che avevano portato quest’ultima ad abbandonare la famiglia Giustamente il regista immaginava che se veniva a mancare (o non era sufficientemente chiara) la continuità di un giusto e coerente movente narrativo, tutto il resto dell’impianto rischiava di crollare e nessuna invenzione registica poteva da sola salvare l’impresa dal fallimento.
Nella visione di Kazan poi, proprio l’ostilità fra i due protagonisti maschili, il figlio e il padre, tenuta sempre alta per tutta la durata della pellicola, finiva per rendere poco credibile la loro riconciliazione conclusiva (pur sul letto di morte) che gli sembrava che attutisse fortemente la portata tragica di un film che proprio negli ultimi metri di pellicola finiva così per sgonfiarsi, come se avesse esaurito troppo presto la precedente virulenza di un andamento in crescendo che lasciava presagire tutt’altra conclusione. Il regista avrebbe preferito insomma – cambiando le carte in tavola rispetto al romanzo - che uno dei due finisse per uccidere l’altro, ma questo era del tutto inconciliabile persino con lo stretto rapporto che il film e il libro avevano ed hanno, con la storia raccontata dalla Bibbia (e dovette di conseguenza rinunciare anche nella stesura finale affidata ad altra penna).
Pensò davvero molto a lungo su come doveva fare per levarsi dall’impiccio, ma poi decise di prendere il coraggio a quattro mani e di liquidare una questione che per lui stava diventando ogni giorno più insostenibile scrivendo a Steinbeck questa lettera (vero capolavoro di arguzia e di diplomazia) che porta la data del 18 maggio del 1953:
Caro John, ti sembrerà strano che io ti scriva. Lo faccio perché devo dirti una cosa brutale e non è facile. D’altro canto voglio dirtela esattamente come la sento, niente di più e niente di meno. Ho trascorso gli ultimi tre giorni in campagna a rivedere più e più volte il nostro trattamento. Ho cercato di guardarlo dal punto di vista del produttore (perché io questa volta sono anche produttore) (…) Con Eden insomma la mia responsabilità è enorme, non solo perché parte dei miei compensi deriverà dalla partecipazione agli utili, ma anche perché voglio che questa volta tu sia orgoglioso del risultato, non come purtroppo è accaduto con Zapata. E l’errore che abbiamo commesso quella volta l’abbiamo commesso in questa fase del lavoro di sceneggiatura (me ne assumo la totale responsabilità) (…) poiché era proprio un errore di costruzione della storia (forse non sono ancora sufficientemente bravo in questo campo e credo che mi servirebbero ancora due anni o tre di palestra. (…) Penso che tutte le decisioni prese finora siano giuste (non temere dunque, non ti sto chiedendo di cambiare il finale), ma dal punto di vista della costruzione e del trattamento sento che ancora non ci siamo. Anche quando eri qui nel Connecticut dieci giorni fa, avvertivo che c’era qualcosa che non andava, (…) e sono per questo sempre più convinto che resta ancora molta strada da fare. Continuo insomma a pensare che siamo troppo dispersivi. (…) Abbiamo fatto tagli eccellenti e persino audaci ma – per usare una vecchia e onorevole parola - ci serve una continuità molto maggiore, e questo ancora prima di arrivare a scrivere anche una sola riga di dialogo. Ciò mi ha portato al passo successivo delle mie riflessioni. Penso infatti che dovremmo trovare un costruttore di film più bravo ed esperto di Gadg Kazan. Per dirla altrimenti, qui il produttore Kazan non assumerebbe lo scrittore Kazan per farlo lavorare al tuo fianco. Non è falsa modestia. Sono un regista fertile, ma sottolineo, regista. Le mie idee sono fondamentalmente idee da regista. Sono tutt’altro che un eccellente costruttore di storie insomma, questo lo so bene. E un romanziere eccellente e un romanzo eccellente come il tuo si meritano un tecnico del cinema altrettanto eccellente che vi renda pienamente onore. Vorrei insomma chiamare un vero fuoriclasse dello schermo, un vero artigiano della sceneggiatura: mi piacerebbe dargli tutto il nostro materiale e far sviluppare a lui una prima stesura della storia. Il suo lavoro dovrebbe dunque portare sostanzialmente alla semplificazione, all’uniformità e alla continuità che adesso manca. Alla coerenza insomma! Lavorerebbe a stretto contatto con te e con me (soprattutto per le decisioni). Io avrei pensato a qualcuno da scegliere fra i due che anche tu hai conosciuto, e quindi: a Bob Ardey o – ancora meglio - a Paul Osborn. Quelli non ti arrivano alle caviglie come scrittore o artista. No. Ma sono degli specialisti (e la sceneggiatura è un settore particolare che richiede proprio questo: specialisti. Non è il tuo forte e neanche il mio… Credo che potremmo convenire proprio su questo punto. Il tizio che sceglieremo avrebbe solo il compito di scrivere una prima stesura, una sorta di traccia che però rispecchierebbe le sue idee in fatto di uniformità, semplificazione e coerenza. Con questa prima stesura in mano avremmo tempo in abbondanza prima della scadenza con la Warner Bros e soprattutto troveremo così la vera obiettività di un terzo occhio che a me sembra in questo caso particolarmente necessario. (…)
E fu così che Steinbeck si tirò fuori dal progetto più strettamente operativo e la palla passo a Paul Osborn che fece davvero un ottimo lavoro scrivendo una sintesi tanto efficace quanto coinvolgente che rende tangibile il dramma del presente, ma anche quello del passato e sul quale Kazan costruì da par suo le immagini che conosciamo.
Gli interpreti
La grande intuizione di Kazan (fondamentale per l’ottimo risultato complessivo della pellicola) fu quella di scegliere per il ruolo di Cal James Dean (che non era stata nemmeno la prima vera opzione, visto che l’orientamento iniziale aveva riguardato in prima battuta Marlon Brando che declinò l’invito a causa di precedenti impegni già acquisiti, e immediatamente dopo, Montgomery Clift, che rispose alla chiamata con un altro secco no). Dean era un giovane e ancora praticamente sconosciuto attore che si era fatto notare interpretando sulle scene, il provocante ragazzo arabo nell’adattamento teatrale de L’immoralista di André Gide: una interpretazione maiuscola con la quale era riuscito a sedurre (come da copione) non solo il protagonista della piece, ma anche la critica.
Fu lo sceneggiatore Paul Osborn a proporre Dean che aveva avuto modo di apprezzare proprio in quel ruolo e a piazzarlo in primo piano nell’agenda del regista che stava già provinando per la parte un altro futuro astro nascente ancora alle prime armi rispondente al nome di Paul Newman che uscì nettamente sconfitto dal confronto (avrebbe al massimo potuto aspirare al ruolo di Aron, ma poi non se ne fece di nulla e ci si orientò diversamente anche per quel ruolo).
Dopo un breve colloquio con l’attore, Kazan non ebbe alcun dubbio né esitazione e prese sui due piedi la decisione di affidare la parte del protagonista a questo ancora un po’ acerbo principiante indubbiamente di valore, ma con una tecnica recitativa decisamente molto scarsa e tutta da affinare, che agiva guidato soprattutto dall’impulso: Jimmy poteva capire subito la scena senza bisogno di troppe indicazioni dettagliate – e questo accadeva il novanta per cento delle volte, forse perché guidato da un disagio interiore e un disadattamento, molto vicini a quelli del personaggio chiamato a interpretare sulla scena (chi possiede il Dvd a doppio disco può ben capire a cosa mi riferisco, perché lì, fra gli extra, ci vengono proprio riproposti i suoi strepitosi provini pieni di una tragica spontaneità iconoclasta che ce lo fanno davvero percepire come l’unico in grado di meritare un ruolo che sembrava scritto sulla sua persona).
La sua totale aderenza al personaggio ci viene poi di nuovo confermata da Kazan che, pur non nascondendo le grosse difficoltà a “trattenerlo” sempre dentro il ruolo senza debordare a causa della spigolosità del suo carattere e della sua tendenza a rubare la scena non solo ai suoi colleghi ma anche allo stesso regista, ce lo descrive come un attore, in grado (anche quando non riusciva a capire esattamente ciò che gli veniva richiesto dal copione) di risolvere la scena alla sua maniera, diversa ma ugualmente efficace, modificando persino le battute ma altrettanto in linea – e forse ancor di più - col progetto e con l’essenza profondamente problematica di Cal. Lo stesso Steinbeck rimase fulminato dalla sua bravura e appoggiò fermamente quella coraggiosa scelta con queste testuali parole: eccome se lo è Cal! Sembra proprio generato dalla mia scrittura!.
La questione fu così definitivamente risolta nonostante la manifesta ostilità nei suoi confronti di Raymond Massey, l’altro eccellente attore di formazione più accademica, già scritturato per l’altrettanto ostica figura del padre che non sopportava nemmeno la sua vista e detestava addirittura l’idea di lavorarci insieme per la sua folle tendenza all’improvvisazione (è talmente imprevedibile che è impossibile recitarci insieme perché non si sa mai quello che dirà o farà, tuonava spesso col regista, definendolo anche come un presuntuoso, immaturo, viziato e pretenzioso pallone gonfiato che si sarebbe presto sgonfiato).
Da parte sua Dean che sapeva di essere disprezzato da quel trombone troppo perfezionista, reagiva nei confronti del suo rivale con una scontrosità un poco impertinente che non si dava alcuna pena di nascondere, il che finiva per peggiorare ulteriormente i loro rapporti: Era un antagonismo che non cercavo di sanare – tutt’altro! Mi tornava al contrario molto utile esasperarlo – confesserà candidamente il regista nei suoi diari - Mi vergogno di ammettere il mio comportamento un po’ sleale - be’, non mi vergogno affatto invece perche quando si gira un film, per ottenere il meglio dagli attori tutto è consentito – che mi portò a non tener nascosto di proposito a Jimmy e a Ray quel che pensavano l’uno dell’altro (lo dissi anzi molto chiaramente a entrambi, così da far nascere nuovi focolai di incomprensione reciproca che rese ancor più veritiere e virulente le loro interpretazioni che acquisivano nuova linfa proprio da quell’ostilità personale e privata (che era anche lo scontro feroce di due scuole diverse – praticamente opposte – di recitazione).
Era proprio questo che volevo, anche se non ne andavo molto fiero, perché il reale attrito che li divideva, aumentava notevolmente l’autenticità di quel rapporto padre-figlio molto conflittuale[2] .
In questo senso, La valle dell’Eden può essere considerato il vero capolavoro recitativo della sua breve carriera che lo renderà anche nel reale, protagonista di una tragedia che si consumerà nel breve trascorrere di una manciata di anni dando origine a una celebrità che sarà soprattutto postuma.
Nonostante il suo giganteggiare sullo schermo (quando non è al centro dell’attenzione si avverte così tanto la sua “assenza” che non si vede l’ora che torni di nuovo a mostrasi), anche Raymond Massey, strenuamente impegnato in questo singolar tenzone recitativo, è così mostruosamente bravo da tenergli bene il passo, anche se quella che riesce davvero a sfiorare la sua ineguagliabile, carismatica presenza, è indubbiamente Jo Van Fleet fino a quel momento poco o niente sfruttata dal cinema che si aggiudicherà – meritatamente - il premio Oscar quale migliore attrice non protagonista (la madre degenere impegnata in due scene davvero stratosferiche, prima fra tutte quella del confronto nel bordello)..
Mentre di Davalos ho già detto tutto ciò che c’era da dire, resta da ricordare ancora la corposa presenza di un sempre bravo Burl Ives e soprattutto quella della delicata e sensibile Julie Harris (dolce e timida Abra la fidanzata di Aron innamorata di Cal).
La messa in scena e i contributi di supporto alla regia
Come si è visto, la messinscena - prima ancora che dalla qualità della recitazione - è sorretta proprio dalla regia poeticamente controllata di un Elia Kazan qui davvero al massimo delle sue capacità espressive (bravissimo in quella sua implacabile scarnificazione della psicologia dei personaggi che è sempre stata una delle caratteristiche peculiari del suo modo di fare cinema) che si trovava per la prima volta a confrontarsi non solo col colore, ma anche con gli allargati spazi del Cinemascope, due vere e proprie “scommesse” ampiamente vinte su tutti i fronti che lo indussero (con pieno successo) a sfidare quasi se stesso e a (re)inventarsi una scrittura e un’impaginazione complessiva notevolmente diversa da quella da lui praticata fino a quel momento, abituato com’era a una sintassi narrativa che privilegiava i piani ravvicinati, quando non addirittura i primi piani, e a un montaggio veloce e ritmato, tutte modalità qui assolutamente improponibili che, con una sensibilità davvero sorprendente, sostituirà (come se riguardasse una forma già ampiamente da lui sperimentata in precedenza) con un rallentamento dei tempi capace di rendere intensamente “distesi” anche i passaggi maggiormente concitati.
C’era poi l’assoluta necessità di riempire senza banalizzarli, quegli infiniti spazi dilatati in orizzontale dello schermo (e lo farà così bene, con tale competenza, da sfruttare sintatticamente proprio l’invadente presenza del Cinemascope come nelle riprese in interni piene di cupa atmosfera col tavolo sbilenco e Cal e il padre seduti l’uno di fronte all’altro che sembrano essere separati da una distanza davvero siderale che crea un profondo disagio anche nello spettatore). Maggiore doveva essere anche l’attenzione da prestare al paesaggio circostante, spesso in contrasto con l’opprimente claustrofobia degli interni, e anche in questo il risultato è assolutamente psoitivo, ben supportato com’è dall’ottimo contributo della bellissima fotografia calda e pastosa dell’inventivo Ted McCord che utilizza una inedita, audace tavolozza tutta giocata sulle difficili tonalità del verde e del marrone.
Anche il classicheggiante commento musicale di Leonard Rosenman dona alla pellicola una drammaticità di suoni che esaltano proprio la vocazione al melodramma, prevedendo addirittura una sinfonia introduttiva che precede l’azione, maimportantissima per determinare il giusto clima narrativo della storia.
“Mi va benissimo che mi amiate o mi odiate, per me è ok. Faccio il mio lavoro, ed è questo che secondo me è importante per un artista: deve lavorare a suo modo e secondo la sua visione e non deve dare troppo peso alle reazioni degli altri. Io non lo faccio. Non l’ho mai fatto… Non m’importava nemmeno nel momento peggiore della mia vita, quando tutti mi attaccavano. Non vivevo in base a quello che la gente diceva di me. Il riconoscimento ci viene unicamente dal nostro lavoro, non dalle lodi sperticate di qualcuno. (Elia Kazan)
[1] Capita che il regista ‘si innamori’ dei suoi attori? Certo. Come potrebbe essere altrimenti? Il regista ha rapporti di grande intimità con ciascuna persona coinvolta insieme a lui in quell’impresa e partecipa alla sua vita. (…) Si deve insomma instaurare giorno per giorno un clima di fiducia e di gioia in previsione del risultato che dobbiamo conseguire tutti insieme (e il discorso vale anche per tutto il resto della troupe). Posso comunque essere sicuro di una cosa: che la relazione fra il regista e l’interprete non è destinata a durare. Quello che l’ha messa in moto è il comune tentativo di eccellere a ogni costo e di conseguire un risultato positivo. Compiuta l’impresa però,, la tensione verrà meno e piano piano scomparirà, ma finché si continua a girare, le cose stanno così: il mio destino è nelle tue mani, il tuo nelle mie. (dai Diari di Elia Kazan)
[2] Nei suoi diari Kazan aggiunge ancora: “Sentivo che il corpo di Dean era molto grafico, a volte era letteralmente torto dal dolore. Stava sempre storto, quasi come uno storpio o una specie di spastico. Non riusciva a far niente stando dritto. Addirittura camminava come un granchio, come se cercasse sempre di rannicchiarsi. Io me ne accorgevo, ma non è una cosa visibile nei primi piani. Comunque Dean era storpio dentro – non era come Brando. La gente li paragonava, ma non c’era nessuna somiglianza. Lui era un ragazzo molto, molto più malato. Brando invece non è malato, è solo tormentato. Ma penso comunque che ci sia qualcosa di speciale nel volto di Dean. E’ un volto così desolato e solo e strano che a volte sembra invocare tenerezza, altre è come se con quel suo sguardo corrucciato cercasse invece di sfidare il mondo intero. (…) Dean era comunque quello che aveva il talento più naturale dopo Marlon. Ma gli mancava la tecnica; non aveva una formazione adeguata. Non era in grado di interpretare ruoli che non fossero nelle sue corde. (…) Dirigerlo comunque era gratificante perché coglieva sempre qualcosa da quella gioventù che si sentiva defraudata dalla generazione precedente. (…) C’era insomma in lui una considerevole dose di innocenza intrisa di autocommiserazione priva di forza e di coraggio, ma sorretta da una sorta di disperazione che nascondeva un odio profondo che non riusciva a trovare alcuna valvola di sfogo. (…) Il suo attore preferito era Brando , e qui il solo termine possibile che si può usare è quello dell’adorazione. Quando Brando venne a far visita al set, Jimmy era intimorito e quasi raggrinzito per il rispetto e la devozione. Ma non sono d’accordo con quanti dissero che aveva preso in prestito i manierismi di Marlon, lui aveva già o suoi, ed erano più che sufficienti”.
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