Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film
"Se non si riesce ad entrare in paradiso, tanto vale adattarsi all'inferno".
[David Warner]
Dopo il bagno di sangue di Il mucchio selvaggio Sam Peckinpah si rifugia nei deserti del western per sfuggire ai clamori della ribalta: il suo Cable Hogue (Jason Robards) ci viene presentato così, in mezzo a una distesa sterminata e desolata di sabbia, senza una provenienza ed una direzione, in cerca di cibo, derubato della sua preziosa scorta d'acqua da una coppia di balordi, Bowen (Strother Martin) e Taggart (L. Q. Jones). Si trascina stoicamente arrancando sulla terra infuocata dal sole, bramando una goccia d'acqua, mentre in colonna sonora le note languide di Tomorrow Is the Song I Sing (cantata da Richard Gillis su musiche di Jerry Goldsmith) accompagnano in sottofondo il tripudio di split screen su cui scorrono i titoli di testa del film. Cable si arrabbia con Dio, urlandogli tutta la sua disperazione ("Se non mi mandi subito un po' d'acqua non avrò neanche la possibilità di pentirmi") e, proprio quando si ritrova sul punto di soccombere ad una tempesta di sabbia, scopre, quasi miracolosamente, un pozzo d'acqua. Non aveva mai smesso di sperare, continuando a crederci anche quando sembrava trovarsi ad un passo dalla fine. Adesso è felice, trionfante, orgoglioso, in piedi sulla sabbia riarsa del suo deserto, che ora non gli appare più così minaccioso. Ed infatti si guarda intorno, osserva i solchi sulla terra ed immagina: "Carovane, diligenze, carrozze, con mamme e bambini, persone... Diretti sulla strada da qualche parte. E io sono qui, io e il mio pozzo d'acqua. Me la pagheranno, quei bastardi, non devo fare altro che aspettare". È pronto per creare il suo mondo. Stringe amicizia con il reverendo Joshua Sloane (un irresistibile David Warner), "predicatore del Nevada orientale e di alcune parti dell'Arizona del nord": "Hai creato un'oasi in questa terra selvaggia", lo incalza Josh. E Cable: "No, no, ho solo sbattuto la faccia in una pozzanghera e mi sono fermato a scavare". Gli manca soltanto l'atto di proprietà per il suo terreno e si reca in città per registrarlo al catasto: sebbene la vista della radiosa Hildy (Stella Stevens), una prostituta, lo distragga per qualche attimo, compra ufficialmente il suo ettaro di terra (uno soltanto, perchè non ha abbastanza denaro). Vince la diffidenza dei banchieri, che non credono che un vecchio ubriacone come lui possa aver trovato veramente l'acqua e, in una sublime sequenza, riesce ad ottenere un prestito per avviare finalmente la sua attività. Si concede anche, ora che può permetterselo, qualche momento di intimità con Hildy, a cui offre la possibilità di raggiungerlo nel suo nuovo regno. Ma Hildy ha altri progetti: la sua prossima meta, infatti, sarà San Francisco ("Come prima cosa mi sposerò con l'uomo più ricco di San Francisco... magari i due più ricchi, è solo una questione di tempo"). Insieme al reverendo Sloane trascorre una notte in città, lui con Hildy, Josh a "consolare" un lutto. Alcune "sagge" ed insistenti considerazioni di Josh risvegliano in Cable quei sentimenti che la polvere e le ferite avevano sepolto:
"Hai mai provato a riflettere, Cable, su quanto saggio e benevolo sia stato Dio a fornire i seni alle donne nel numero giusto ed al posto giusto? Ci avevi mai fatto caso?".
"E dove altro volevi che glieli mettesse? Sulla schiena?".
"Era solo un'idea. E...hai mai notato le gambe delle donne?".
"Certamente. Alcune arrivano su su fino al sedere, altre si fermano parecchio più sotto".
"E le cosce? La dolce morbidezza di una coscia femminile... Che incanto...".
Cable si sta innamorando di Hildy e comprende che è ormai giunto il momento di farsi avanti con lei con molta più decisione, anche perchè il nuovo contratto, appena firmato, come titolare di Cable Springs, la sua stazione per diligenze e corriere, gli porta in dono l'agognato denaro (oltre, gli dicono, "l'accessorio più importante di tutti", una bandiera americana: "Bene", ringrazia Cable, "era la sola cosa che mancava"). Sarà proprio Hildy, quando verrà cacciata via dai benpensanti della città, a raggiungerlo: imparano a conoscersi, si amano, lavorano e vivono insieme. "Perchè non vivi in città?", gli domanda Hildy: "Non funzionerebbe", le spiega Cable, "in città non sarei nessuno e a me non va di essere nessuno. Mi è già capitato". Non era venuta da lui, però, per restare: nel suo futuro, continua a ripetergli, c'è San Francisco. Lui è disposto a seguirla ovunque, ma non prima di aver definitivamente placato la propria sete di vendetta: è perfettamente consapevole, infatti, che prima o poi i suoi due carnefici incroceranno nuovamente la sua strada ("Non mi importa dove sarai, Hildy. Ti ho detto che ti troverò, non ho altro scopo"). Hildy partirà l'indomani: era venuta per rimanere un paio di giorni e si è trattenuta, invece, tre settimane. Anche il reverendo Sloane lo saluta: di commovente lapidarietà i commenti che i due amici si scambiano dopo la partenza di Hildy, sequenza di magistrale finezza, sciolta nella reprise delle note malinconiche della canzone di Gillis. È Josh a filosofeggiare:
"Che strano: non importa quanto un uomo possa aver viaggiato, con quante donne abbia dormito. Arriva il momento in cui una di loro ti lascia il segno. E anche profondo".
"E come si può rimediare?".
"Suppongo che basti morire ed è tutto finito... Addio, Cable".
"Addio, Josh".
Poi Cable urla al deserto, mentre in sovrimpressione il destino si è messo in viaggio per raggiungerlo:
"Sono qui! Cable Hogue! Proprio qui... ad aspettare... qui! Vi aspetto!".
E aspetta, Cable Hogue, tre anni e mezzo, fino al giorno agognato in cui la carrozza guidata da Slim Pickens gli porta finalmente tra le braccia Bowen e Taggart. Il West è finito, il mito della frontiera e dei pionieri è morto, Hildy viene a riprendersi il suo uomo a cavallo del progresso, in automobile, per portarselo via con sè. Ma alla malinconica ed irridente ballata che Peckinpah sta componendo manca ancora un'ultima strofa, quella in cui si compirà il beffardo e crudele destino di Cable Hogue... Nell'assurdità della sorte riservata al suo anti-eroe, Peckinpah conclude la sua opera di demistificazione della leggenda, esternando il suo profondo disprezzo per la perversa aspirazione al capitalismo insita nel sogno a stelle e strisce: l'uomo è destinato a soccombere al progresso, all'implacabile trascorrere del tempo, La ballata di Cable Hogue è un'elegiaca canzone in memoria delle occasioni perdute, è un'ode al fallimento, è polvere e poesia, sole infuocato e morte, è una sontuosa (impossibile non applaudire, per l'ennesima volta, la fotografia straordinaria di Lucien Ballard), travolgente ed estatica meditazione su questo loser a suo modo invincibile e sul rimpianto per un mondo che non esiste più, sorretta da una regia di esemplare raffinatezza stilistica, dove i toni e i ritmi del racconto giocano con i generi (la slapstick comedy in un film di Peckinpah? Ebbene sì...) trasformando, rileggendo, sintetizzando ancora una volta la personalissima, elettrizzante e travolgente idea di Cinema del suo autore.
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