Regia di Emidio Greco vedi scheda film
Prima dell’esplosione de La mia Africa, complice il trio Pollack-Redford-Streep, un libro di Karen Blixen era già stato adattato per il grande schermo da Emidio Greco, quasi certamente il più raffinato e colto cineasta ancora in attività nel nostro Paese.
Prodotto da Enzo Porcelli con la RAI (e curiosamente distribuito una seconda volta nel 2003, chissà perché), Ehrengard è un’opera perfettamente nelle corde del suo autore: lineare e complesso, semplice e cerebrale, è il racconto di un racconto di un racconto (esattamente così) filtrato da una prima voce narrante (una vecchia dama) che ci narra la storia, a sua volta narrata dal protagonista (Cazotte, un pittore accattivante ed esteta), della macchinazione messa su dall’artista per assicurare un erede ad un piccolo principato europeo di due secoli fa.
Attorno a questo nucleo si sviluppano le preoccupazioni della granduchessa (ha paura che certi cugini usurpino il trono nel caso scoprano l’intrigo), le confidenze con una nobildonna eterea e, soprattutto, i tentativi del pittore di conquistare la giovane dama di compagnia della nuora della granduchessa. La ragazza è appunto Ehrengard, figlia di militari e spirito libero, che illude, senza far nulla, l’apparentemente imperturbabile Cazotte di essere da lui sedotta (ma le cose in realtà stanno diversamente). Malinconica sorpresa finale.
Partendo da un racconto epistolare (genere sempre molto difficoltoso da portare al cinema) di non facile lettura (nonché allusivo, metaforico e allegorico quanto immediato, diretto e chiaro), Greco (che non è di certo un autore attratto dalle cose ovvie) articola una commedia elegantissima e sobria su tre movimenti musicali (preludio, pastorale, rondò) che corrispondo ad altrettanti fasi del racconto, che sfuggono nobilmente qualunque deriva schematica o meccanica preferendo l’essenzialità quando i fronzoli non servono (nonostante lo splendido e continuo indugiare sulla splendida villa veneta in cui si svolge il racconto) e giocando con una narrazione sciolta e libera quando necessario (la pastorale di Rosembud), puntellando la struttura estetica (stupenda fotografia di Giuseppe Lanci) con anacronistici, irresistibili e eruditi dialoghi.
È probabilmente il suo film più lieto ed ambizioso, sicuramente ostico ma al contempo solerte, squisito per quanto rigoroso, corso deliziosamente dalle musiche di Mozart ed interpretato da una compagnia d’interpreti non banale e di nobile lignaggio in cui spiccano, mi verrebbe da dire naturalmente, un perfetto Jean Pierre Cassel e una ritrovata Lea Padovani.
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