Regia di Ettore Scola vedi scheda film
La dimensione dell’avventura è un elemento che ricorre sovente nella filmografia di Ettore Scola. Raramente ha una valenza primaria, ma come negare una certa, sottile e saporita fascinazione nei confronti dell’avventuresco, dal Salgari letto da Massimo Dapporto ne La famiglia fino al monologo del Corsaro nero recitato da Arnoldo Foà in Gente di Roma (versante esotico) passando per I tre moschettieri che ricorderanno per sempre a Sophia Loren la sua Giornata particolare con Marcello Mastroianni (versante cavalleresco). E qui siamo ai riferimenti espliciti, fulgidi esempi di letteratura popolare per l’infanzia, ma potremmo soffermarci anche sulla struttura avventuresca della rilettura errante del Capitan Fracassa o sulle evocazioni dei ricordi bambineschi dei protagonisti della Terrazza. Il fascino dell’avventura è tipico della generazione di Scola e non si può non ricordare l’esperienza delle riviste del suo tempo (Corriere dei piccoli in primis) nella costruzione di quell’immaginario.
Il titolo di questo film dell’anno di grazia 1968 si lega proprio a quella componente avventuresca: la lunghezza didascalica del titolo non solo si riconduce alle narrazioni contenute nelle riviste di cui sopra, ma intende affabulare il pubblico popolare attraverso l’esplicitazione di quella storia in una dimensione quasi epica. Come tutta la commedia all’italiana, però, trattasi di epica della cialtroneria. Vediamola così: cresciuti con il mito di Salgari, fomentati dai mondo movies, affascinati dall’esotico, i borghesi ricchi ed annoiati che si preparano alla mazzata tra capo e collo della contestazione generale (per citare un successo film con Sordi) pensano bene di partire (leggi: fuggire) col pretesto di riportare in Italia (quindi nei binari del conformismo borghese) un parente disperso in Africa.
Alberto Sordi è il naturale protagonista di questa commedia d’avventura che in qualche modo fa parte di quel filone di cui è stato campione negli anni sessanta: la piccola epopea cialtrona dell’italiano all’estero, un cocktail di entusiasmo infantile, arte di arrangiarsi, fremiti sessuali, cinismo romano e prevista saudade (vedasi Il diavolo in Svezia, Fumo di Londra, Un italiano in America). Eppure il film va al di là del filone, perché contamina il genere di cui sopra con il buddy movie (complice il superlativo ragioniere di Bernard Blier), il road movie (la complicata traversata in Africa), la commedia di costume (i siparietti borghesi in Italia – comprese le tristi angosce di Sordi nelle consuete riunioni al ritorno), una specie di parodia ma manco tanto del mondo movie (i finti riti amministrati dal sacerdote Nino Manfredi).
E soprattutto un guizzo finale che entra di diritto nel meglio dell’antologia sordiana: la consapevolezza della vacuità della propria condizione borghese in un finale amarissimo sull’impossibilità di cambiare davvero vita e rinunciare a tutto ciò a cui l’Occidente ci ha bellamente abituati. L’inettitudine del borghese, espressa da Sordi con tragicomica sofferenza, è d’altronde una delle cifre fondamentali del percorso di Age e Scarpelli, gli sceneggiatori che meglio hanno saputo creare l’epica cialtrona della cosiddetta commedia all’italiana. Qui a dire il vero si dilungano un po’ troppo nelle tappe del road movie, funzionale comunque alla maturazione del personaggio Sordi nell’economia del film.
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