Regia di Alex Proyas vedi scheda film
Pellicola di culto che spopolò nei cinema nell’oramai lontano anno 1994, sin da subito accolta con estremo clamore soprattutto dagli adolescenti dell’epoca. Per ragioni molteplici e diversificate che enumereremo puntigliosamente nelle righe seguenti. Peraltro anche per via d’una fortuita quanto tragicamente concomitanza di eventi parossisticamente stupefacenti. Come la morte sul set del suo protagonista, il compianto Brandon Lee.
Sorprendente opera prima, dopo tantissimi, celebrati cortometraggi di Alex Proyas. Regista che, ahinoi, nonostante il successivo e addirittura superiore Dark City, prometteva, dato appunto questo strabiliante, seppur imperfetto esordio, un futuro cineastico decisamente migliore. E invece, dopo essere stato finanziariamente frenato in molti suoi ambiziosi progetti (vedi l’adattamento mai compiutosi di Paradiso perduto da Milton con Bradley Cooper nei panni di Satana), ha susseguentemente annaspato in produzioni assai mediocri, per non dire sballate (Segnali dal futuro) se non kitsch e inguardabili (il pasticciaccio Gods of Egypt).
Ma dicevamo de Il corvo. Pellicola che, a distanza di quasi venticinque anni oramai dalla sua uscita in sala (da noi uscì il 22 Settembre), a tutt’oggi, nonostante l’alternarsi accavallante di mode, tendenze e del ciclopico mutare stravolgente della tecnologia e degli stilemi del Cinema, mantiene intattamente integra e inamovibile, appunto, la sua nomea giusta di cult.
Il termine cult, sapete benissimo, non è quasi mai sinonimo di capolavoro. Bensì assume, come per Il corvo, una pellicola subitaneamente idolatrata, la definizione di qualcosa di magicamente epocale, iconico, intoccabile e generazionale che ha determinato fin dapprincipio presso i suoi affezionati estimatori irriducibili una sorta di venerazione esaltante, continuando puntualmente a stupefare magneticamente loro stessi perfino a distanza di svariate, annali, innumerevoli visioni.
Basti pensare a The Rocky Horror Picture Show oppure a The Blues Brothers. Film che, a dispetto delle firme comunque autorevoli e importantissime dei loro rispettivi autori (soprattutto John Landis), non possiamo cinematograficamente considerare masterpiece a tutti gli effetti. Eppure, tenendo indubbiamente conto del loro ascendente miracolosamente subliminale, del loro folgorante potere seminale, della loro carismatica, fortissima influenza nella mente e nell’anima degli spettatori, alla fine capolavori lo sono diventati, a prescindere dalle loro evidenti pecche o dai loro parziali, immancabili difetti.
Dunque, Il corvo, no, non è forse un capolavoro e nemmeno un grande film. Ma un film che nessuno di noi, amanti più o meno raffinati della Settima Arte, può trascurare o liquidare in quattro e quattr’otto. Per le stesse motivazioni poc’anzi enunciate.
Il corvo, malgrado la sua sceneggiatura assai scarna col suo inequivocabile, ambiguo giustizialismo poetico piuttosto bambinesco (o comunque puerilmente adolescenziale) e la sua contestabile morale consequenzialmente vendicativa di fondo, è una strana quanto affascinantissima mistura d’irresistibile, maliarda, inattaccabile forza visiva e accattivante amalgama appassionante, una florida cornucopia roboante dalle mille sfumature cromatiche vivamente torbide e incantevolmente ipnotiche che, al di là del suo essere, a conti fatti, nient’altro che un videoclip dilatato a lungometraggio, invero non tanto dissimile a quelli che impazzavano nei nineties su MTV, continua come detto a sbalordirci ed emozionarci.
Il corvo è la suggestiva trasposizione cinematografica del fumetto omonimo di James O’Barr. Che, a sua volta, seppur velatamente, attingeva dalla celeberrima, tetramente romanticissima poesia di Edgar Allan Poe.
La trama la conoscete ovviamente tutti. Quindi, ci limiteremo soltanto a sintetizzarla in alcune esaustive frasi.
Il rocker Eric Draven (Brandon Lee) e la sua eterna fidanzata Shelly (Sofia Shinas) stanno amorosamente celebrando la loro intima passione alla vigilia delle nozze. Nella Devil’s Night, battezzata così perché solitamente in questa tenebrosa notte maledetta la violenza delle bande criminali della città, furiosamente a briglia sciolta, imperversa sovrana.
Infatti, quattro bastardi irrompono violentemente in casa di Eric e Shelly. A turno malmenano Shelly e la violentano. Ferendola ignominiosamente a tal punto da portarla a un’agonizzante, spaventosa morte lentissima e madornalmente dolorosa.
Mentre Eric viene accoltellato e defenestrato. Spiaccicato al suolo.
Un anno dopo la tragedia, un corvo si posa sulla tomba di Eric. E lo risveglia dal sonno perpetuo. Eric resuscita e si maschera da pagliaccio malinconico alla Pierrot (un’iconografia tanto stereotipata da dannato clown irreversibilmente lugubre e mortifero quanto azzeccatissima).
Cosicché, illuminato vigorosamente e invincibilmente da un’energia indomitamente letale e distruttiva, stermina a uno a uno i mostruosi colpevoli dell’osceno, imperdonabile misfatto omicida.
Straziando il loro infimo capo malavitoso, lo spettrale, mefistofelico Top Dollar (Michael Wincott).
Brandon Lee è stato doppiato da Luca Ward.
La fotografia è del grande Dariusz Wolski.
Colonna sonora da brividi contrappuntata fra gli altri da immortali pezzi dei Nine Inch Nails, dei The Cure e dei Rage Against the Machine.
Il film è tristemente leggendario poiché Brandon Lee fu colpito accidentalmente, come detto, da un colpo di pistola durante le ultime riprese, morì quasi subito dopo in ospedale e le poche scene che non aveva potuto finire di girare con lui protagonista si avvalsero di avanguardistici effetti speciali e di una ben dissimulata controfigura.
Più cult di così, appunto, si muore.
di Stefano Falotico
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