Regia di Gianfranco Albano vedi scheda film
Un bello sceneggiato televisivo sulla mafia, molto più serio di quanto la produzione televisiva lascia di solito intendere. Il livello è più alto non tanto per la recitazione, il ritmo e tanti altri fattori classici, che sono in sé spesso piuttosto convenzionali, laddove non piatti; ma per il coraggio nella restituzione della realtà: della mafia, e dell’opposizione che madre e figlio fecero alla mafia.
Un esempio, non così comune, di come la Rai abbia fatto anche opere di denuncia seria, in cui l’onesta intellettuale è stata premiata, nonostante ciò andasse a ledere la memoria e la prassi di tanti potenti.
In tal senso, corretto è il ritratto dei carabinieri di Cinisi: tutti corrotti, dediti a ostacolare con impegno il diritto delle vittime, in un modo che così ha favorito costantemente i criminali, dal cui beneplacito evidentemente dipendeva la loro carriera. Senza mostrare riferimenti politici, questi appaiono comunque chiari, laddove, nei posti del controllo del ordine pubblico, la politica corrotta ha interesse a mettere dei corrotti (e questo perché la politica corrotta è controllata dai più ricchi del luogo, che lì, come in pressoché tutto il Sud, sono mafiosi, o loro affidabili e interessati complici).
La Savino recita perfettamente una parte assai nobile e difficile. Splendidi tanti momenti, che a quanto pare realmente realizzò in vita:
quando tiene le distanze dal parente mafioso (ottima la scena in cui toglie le sue mani da quelle del parente che gliele stava stringendo), che gli impone di non rivolgersi alla giustizia, ma solo alla faida tra parenti ugualmente mafiosi (lei invece spera nella giustizia, e comunque non può accettare di chiedere favori ai mafiosi);
quando umilia i “buffoni”, lacchè del potentissimo boss mafioso Badalamenti;
quando ricorda che la dignità impone di non fare mai la parte dei servi, e quindi anche di non stare mai zitti a fronte dei soprusi, indipendentemente da tutte le conseguenze negative che da ciò possono derivare;
quando apre le porte di casa sua in modo che la verità possa essere sentita (e a tal fine crea un museo domestico di denuncia contro la mafia, libero a tutti);
quando accetta l’isolamento sciale, con la tristezza che ne deriva, pur di non venire meno tanto alla memoria del figlio quanto alla necessità della giustizia sociale (e le due cose coincidono; e non è un caso che un martire così geniale e meritevole come Impastato abbia avuto l’educazione di una madre così, che già si era ribellata a un matrimonio combinato, ad esempio).
Ottima anche la ricostruzione rigorosa e scientifica della falsità della versione ufficiale sull’omicidio di Impastato: il quale doveva apparire prima vittima di un suo stesso attentato terroristico, poi un suicida, con tanto di finta lettera a confessare. Le sue carte in realtà vengono fatte sparire. Le forze dell’ordine non ottemperano a quasi nessuno dei loro doveri, in merito all’accertamento delle condizioni in cui l’attivista comunista venne ucciso. Gli insabbiamenti e i depistaggi, specialità della casa degli inquirenti corrotti, sono ben mostrati, per quel che realmente furono.
Infatti, soprattutto grazia alla serietà della madre, la sentenza corretta sull’omicidio Impastato arrivò: ma solo nel 2002, 24 anni dopo. Senza la determinazione di una madre, ancora una volta l’avrebbero fatta franca i criminali. Che nel film più volte minacciano la madre con questo proverbio: «A spegnere una candela basta un soffio».
Rimane nella memoria anche una delle tante frasi vere ed intelligenti: «La mafia si combatte con i libri, non con la pistola».
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