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Il buono, il brutto e il cattivo

Regia di Sergio Leone vedi scheda film

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La recensione su Il buono, il brutto e il cattivo

di laulilla
9 stelle

Addio molto emozionato e molto modesto a Ennio Morricone

 

Dedico questa recensione, che è un po' vecchia e un po' anomala, al grande Ennio Morricone, che ci ha lasciati. Siamo tutti un po' più poveri.

 

 

 

 

 

 

Il buono, il brutto, il cattivo (1967)

è l’ultimo dei tre film di Sergio Leone che insieme costituiscono la cosiddetta Trilogia del dollaro: è stato girato dopo Per un pugno di dollari  (1964) e Per qualche dollaro in più (1965). 

Con i due film precedenti questo ha in comune l’ambiente deserto del West, ricostruito in terra di Spagna, alcuni attori non protagonisti, la musica di Ennio Morricone nonché la presenza di Clint Eastwood, che incarna nelle tre opere il misterioso personaggio  dello “straniero senza nome”, arrivato dal nulla, col poncho e il piccolo sigaro all’angolo della bocca, biondo, dall’ aspetto freddo e impenetrabile, di poche parole, rapidissimo e preciso nello sparo, eseguito con gelida e intelligente determinazione. La scelta di Eastwood, nel primo film del 1964, era stata un ripiego per Sergio Leone, che aveva firmato la regia con lo pseudonimo di Bob Robertson*. Clint era allora sconosciuto in Europa e poco conosciuto anche negli Stati Uniti, dove aveva ottenuto un po’ di popolarità presso il pubblico del piccolo schermo, avendo recitato per una serie televisiva senza troppe pretese, che si intitolava Rawhide. Non era proprio l’attore che avrebbe voluto il regista che puntava molto più in alto, a Charles Bronson o a Henry Fonda: decisamente troppo in alto per lui che, pur essendosi inserito nel mondo del cinema molto giovane e avendo nel proprio curriculum parecchie collaborazioni alla regia e qualche sceneggiatura, aveva diretto per intero, con grande scrupolo filologico, solo Il Colosso di Rodi, realizzando un dignitoso “peplum”.

 

La collaborazione fra l’attore poco noto e il regista non ancora affermato si rivelò, però, molto felice: Per un pugno di dollari fu un successo di pubblico clamoroso, sia pure con strascico giudiziario**. Gli incassi premiarono il regista che aveva avuto il merito di rianimare, rinnovandolo, il genere western, languente negli Stati Uniti, e quello di riportare il pubblico nelle sale italiane, quando, dopo la grande stagione neorealistica, anche il nostro cinema non se la stava passando molto bene. A questo primo western seguì Per qualche dollaro in più, opera di maggiore complessità, con l’ingresso di un eccezionale attore americano, Lee Van Cleef, nei panni del colonnello Mortimer, che, insieme al Monco (Clint Eastwood, così chiamato per l’abilità nell’uso della sola mano destra per sparare riponendo rapidamente l’arma), interpreta la parte del cacciatore di taglie alla ricerca di El Indio, feroce e ombroso bandito pazzo (Gian Maria Volonté), che Mortimer intende catturare non tanto per incassarne la taglia, quanto per vendicare l’atroce morte della sorella.
Lee Van Cleef (nei panni di Sentenza – il Cattivo), insieme a Clint Eastwood (nei panni di Biondo – il Buono) e a Eli Wallach, indimenticabile nuovo arrivato dagli States (nei panni di Tuco – il Brutto) saranno i grandi protagonisti dello straordinario film col quale si chiude la Trilogia: Il buono, il brutto, il cattivo.

 

C’era una volta la guerra di secessione…

 

Dal punto di vista storico, per le cose raccontate, questo film dovrebbe essere in realtà la premessa della prima e della seconda pellicola della Trilogia poiché la vicenda si svolge durante la guerra di secessione americana, che i due film precedenti avevano dato per conclusa. Questa guerra non occupa poca parte della nuova opera, e non ne costituisce neppure lo sfondo neutro, poiché si intreccia continuamente con le avventure dei tre personaggi e diventa il decisivo snodo conclusivo dell’intera pellicola.

Questo va sottolineato, perché permette di riflettere attentamente sul particolare cinema “western” del grande regista, ormai lontano dal mondo del Far West, che, pur rimanendo presente nella sua immaginazione e pur essendo fonte inesauribile di creazione di nuovi miti, non interessava più il pubblico, preso dai problemi e dalle contraddizioni del proprio tempo. Egli, dunque, ci presenta un periodo diverso della storia americana, di cui ricostruisce con cura meticolosa fatti realmente accaduti e molti particolari della vita quotidiana, inserendovi, credibilmente, la finzione narrativa e dando voce contemporaneamente anche alla nuova sensibilità del pubblico, prima di tutto nei confronti di quell’inutile strage che si chiama guerra. Il nuovo modo di sentire si era manifestato anche in Italia, opponendo alle commemorazioni ufficiali, che nel corso del 1965 avevano evocato le due guerre mondiali (quella iniziata nel 1915 e quella conclusa nel 1945), una visione pacifista e antibellicista.

Se ne sentono spesso gli echi nel film, come nell’episodio del ponte di Langstone, che, nonostante fosse stato teatro di battaglie sanguinose senza esito alcuno, continuava a essere oggetto di contese infinite provocando troppi morti, mutilati e feriti gravissimi, sacrificati dal puntiglio degli Stati Maggiori, che poco si preoccupavano delle sofferenze dei giovani mandati al macello. Solo la sua distruzione ad opera di Biondo e di Tuco, a lungo desiderata dall’ufficiale (Aldo Giuffré) stanco di veder morire i propri soldati per obbedire agli sciagurati ordini dei superiori, avrebbe evitato il perdurare della carneficina e, insieme, permesso ai due banditi di raggiungere il nascondiglio del tesoro di cui intendevano impadronirsi fin dall’inizio del film.

I due banditi erano riusciti separatamente e fortunosamente a riguadagnare la libertà con la fuga, evitando di essere spediti, come prigionieri di guerra, al terribile campo delle prigioni unioniste di Betterville, dove sicuramente sarebbero morti, poiché si trattava di un luogo di tortura e sterminio, ciò che allude alla verità storica dell’esistenza in terra americana, del primo lager della storia***, scientificamente organizzato per far morire i reclusi fra i più atroci tormenti mentre la guerra era in pieno svolgimento.

Le parole dell’ufficiale, convinto dell’idiozia della guerra, quelle di Biondo turbato dall’orrore di tanti morti, e, prima delle loro, quelle di Tuco, che aveva difeso la propria scelta dell’illegalità di fronte a un fratello prete, che dall’alto dei suoi privilegi si era permesso di condannarlo, rovesciavano le tradizionali e manichee rappresentazioni dei buoni e dei cattivi nei western e inducevano lo spettatore a interrogarsi sulla relatività delle convinzioni morali, e a riconoscere anche nei banditi un’umanità non del tutto perduta.

Tuco e Biondo, coi loro difetti e coi loro pregi, si trasformavano, incarnando, nel corso del film, i più umani dei banditi, simili a quelli che frequentemente si possono incontrare nei racconti picareschi o in alcuni romanzi d’avventura della tradizione letteraria (Leone accenna a Don Chisciotte), distinguendosi da Sentenza, la cui cattiveria vera lo aveva portato a schierarsi col potere e con i signori della guerra per trarne il massimo dei vantaggi.


Ricostruendo negli spazi deserti della Spagna l’ambiente dei vecchi Western, Leone ne aveva ricreato l’incanto grazie alle immagini pulite ed essenziali, in cui il paesaggio grandioso coi suoi silenzi, interrotti dai suoni e dai rumori della natura, riecheggiati dalle musiche suggestive di Ennio Morricone, permetteva alle vicende di svilupparsi in un’aura favolistica, quasi magica, capace di far sognare ancora gli spettatori, che pur lontano da quei fatti, li sentivano vicino e si commuovevano, allo stesso modo con cui continuava a essere commosso il pubblico che seguiva i racconti fantasiosi dei “pupari” che evocavano, muovendo le loro marionette, le gesta degli antichi paladini di Orlando, aggiornate ai tempi e adattate ai luoghi in cui lo spettacolo si rappresentava (ho riportato a memoria le parole dello stesso Leone, nell’intervista di cui do notizia nella nota***).

 

 

 

 

Presto condannati dai critici italiani,  poco lungimiranti e molto conservatori, che non apprezzavano la contaminazione del nostro cinema con i temi, pur importanti, di derivazione americana, che, secondo loro, male si sarebbero inseriti nella nostra tradizione cinematografica, i film della Trilogia, diedero origine a una serie infinita di imitazioni in Italia creando il genere degli “Spaghetti Western”, la cui paternità era stata attribuita a Sergio Leone, il quale la respingeva con tutta l’ironia tagliente e bonaria di cui era capace e che connota questi stessi film, quest’ultimo soprattutto. Il pubblico, invece, gli aveva dato ragione, così come i registi più intelligenti d’oltreoceano che ne avrebbero presto colto le novità, tanto che, per molti di loro, questi anomali western erano diventati oggetto di ispirazione e anche di culto.

 

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*alla lettera “figlio di Robert”: suo padre Vincenzo Leone, regista a sua volta, si presentava come Roberto Roberti

**Leone, che si era ispirato a La sfida del samurai di Akira Kurosawa (1961), fu accusato di plagio, perse la causa, e fu condannato a cedere gli incassi del film in Giappone, Corea e Formosa, nonché il 15% dei diritti mondiali.

La causa ritardò fino al 1967 l’ingresso della Trilogia negli U.S.A. 

***fu lo stesso Sergio Leone a parlarne in una lunga intervista del 1982, raccolta a Londra da Christopher Frayling e ora pubblicata nel bellissimo volume edito dalla Cineteca di Bologna, forse ancora reperibile sul mercato librario, dal titolo C’era una volta in Italia. dello stesso Frayling-

 

 

 

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