Regia di Richard Linklater vedi scheda film
All'interno di alcune correnti di pensiero, nell'ambito della critica cinematografica, è ben radicata la convinzione per cui, la forza estetica delle immagini e l'eccellenza del montaggio, riescano a raccontare e a veicolare, narratività, emozioni e soprattutto arte visiva nel senso più ampio del termine, indipendentemente dai contenuti che essi raccontino.
Ne è decisamente un significativo esempio Dazed and Confused (1993), opera giovanile ma solo apparentemente acerba ed immatura del regista Richard Linklater, autore di film generazionali di culto, come “Prima dell'alba” (1995)(con 2 seguiti) e “School of Rock” (2004), impavido sperimentatore del Rotoscope con “Walking Life” (2001) e “A Scanner Darkly” (2006), ma anche sensibile autore indie con il premiatissimo “Boyhood” (2014) e l'acclamato dalla critica “Tutti vogliono qualcosa” (2016).
“La vita e' un sogno” (così la sbrigativa traduzione italiana) è un affresco generazionale a tinte tenui, che tematicamente si colloca più nel filone del goliardismo grossolano e polically scorrect di Porky's e Animal House, piuttosto che percorrere la scia di un “malinconismo” lirico e riflessivo, emotivamente innescato da una giovinezza che inevitabilmente sfugge, dei piu' acclamati ed accorati “American Graffiti” e “Fandango”.
Nonostante la superficialità reiterata e quasi ossessiva che permea tutte le scene, il tassativo non approfondimento dei personaggi e la totale mancanza di buoni sentimenti che molto spesso accompagnano almeno i finali di questo genere di pellicole, Dazed and Confused è un film complesso e strutturato su piu' livelli, che riesce a trasformare questi apparenti limiti, in tratti distintivi quasi unici ed avanguardistici per il genere a cui appartiene, considerato anche l'anno di distribuzione (1993). L'impressione a caldo, sia durante che appena finita la visione, è quella di un'opera molto sincera e priva dei consolidati filtri cinematografici: non si ricerca redenzione, pentimento o una magari una forzata risoluzione dei conflitti. Tutto è affrescato su un “intonaco a presa rapida”, restio ad una qualsivoglia manipolazione o correzione. Quasi tutte le sequenze spiccano per immediatezza e spontaneità nella messa in scena. Non c'è nemmeno un tentativo di ricorrere alla pur sempre utile ed edulcorante ironia, che utilizzerà a piene mani un altro regista “generazionista” come Kevin Smith: il film e' servito al “naturale”, senza “nessun condimento” che lo possa rendere più appetibile, al pubblico che ama un prodotto fortemente standardizzato.
Ma “La vita e' un sogno” e' molto più di un apologo sull'ostentato disimpegno e sul non prendersi mai sul serio come paradigma (mantra) generazionale.
È un film che sottende una programmatica, ma non ostentata, poetica di antiautoritarismo dei personaggi, portata avanti attraverso un rigoroso e serrato montaggio che, con maniacale attenzione, bada costantemente a non caricare di eccessiva drammaticità ed importanza, rispettivamente scene e personaggi. Si nota, infatti, fin dalle prime sequenze, la tendenza della pellicola a cambiare nervosamente l'io narrante, il tema dominante, che porta avanti il racconto, (fino a tre quarti del film realmante non si ha idea di cosa si stia realmente raccontando) nochè un reiterato ed ammiccante accenno, nell'investire a turno, differenti personaggi, come possibili candidati al ruolo di protagonista della pellicola. Investiture che, inesorabilmente vanno a morire, nello stretto giro di qualche sequenza dopo.
Perfino la prevista festa su cui sembrava poggiare tutta la seconda parte della vicenda viene dolorosamente (soprattuttuo per lo spettatore ah ah) annullata a causa dell'arguto fiuto dei genitori dell'organizzatore, riusciti ad intuire appena in tempo, le intenzioni esageratamente festaiole del figlio. Di li a breve i gruppetti di ragazzi, che volgevano verso l'aggregazione, ritornano a sparpagliarsi confusamente alla ricerca di un nuovo ente catalizzatore.
Tutto questo è sostenuto da un montaggio che nonostante cerchi, senza una apparente motivazione artistica, di confondere e disorientare lo spettatore, riesce invece a tenere alta l'attenzione grazie ad un rigoroso antiautoritarismo tra i vari personaggi ed una disordinata, ma inesorabile, chiusura delle parentesi narrative aperte.
Anche l'entrata in scena di David, uno dei personaggi più di peso della pellicola, interpretato da un giovanissmo Matthew McConaughey, si compie passando per soluzioni visive e narrative nient'affatto scontate.
Nonostante sia il persoggio che rimanga piu' impresso nell'immaginario visivo dell'opera, non tanto perche' sia “il” protagonista della vicenda, ma quanto per la sua forza iconica nettamente superiore al resto del “branco”(una sorta di alter-ego di Fonzie di Happy-Days) non entra in scena prima del minuto 39'. Per rincarare la dose, nel gioco della dissimulazione, Linklater sperimenta una sorta di ingresso scenico anti-divo: McConaughey compare sullo schermo nelle vesti di amico-“autista” di un altro personaggio del film, presente fin dall'inizio della pellicola; lo fa in modo sommesso, tanto da indurci a dubitare se si dileguera' di li a breve, o se conquisterà un suo “peso specifico” nell'economia della trama.
È solo sulle note, questa volta fin troppo enfatiche della monumentale “Hurricane” di Dylan, che McConaughey, si ritaglia il suo spazio puramente celebrativo, nell'economia della pellicola.
Con l'ingresso del personaggio di David, Linklater, accantona per un attimo il suo continuo teorema dissumulatorio e svela formalmente le sue intezioni poetiche di concept-film corale e generazionale.
Per capire quanto il montaggio di questo film, sia stato precursore di una poi pandemica ricerca di narrazione collettiva o corale, coniugata ad una decostruzione cronologica, che in pochi anni e' passata dal virtuoso utilizzo, allo stucchevole e stantio abuso, solo per stare al passo con le mode, e' opportuno ricordare che Dazed a Cofused e' un film distribuito nel 1993. Quando “Pulp Fiction” (1994) detono' nelle sale, gli appasionati cinefili e non, si esaltarono per gli incastri temporali ingegnosi, ma inaspettati, perche', coraggiosamente, avevano un effetto anti-climax. La tensione e le emozioni venivano smorzate e non esaltate dal montaggio: un ganster-movie privo di un picco emotivo finale!
Tarantino ha inserito in una lista dei suoi 20 film preferiti, (ne esiste una anche di 12) proprio il film di Linklater. Anche se le opere sono poeticamente abbastanza distanti, molte delle seminali idee estetiche di Dazed & Confused si ritovano lungo il percorso artistico, direttamente od indirettamente, sia di Tarantino che di altri registi “generazionalisti” come ad esempio Kevin Smith o Cameron Crowe,
Ne “La vita è un sogno”, infatti, è palese il costante rifiuto del picco emotivo, ottenuto grazie a cambi di scena apparentemente maldestri o attraverso improvvisi sgravi se non tonfi di emotività, all'interno di una scena stessa.
Possiamo altresi' rilevare, un'ulteriore non predominanza, tra le varie scene e sequenze della pellicola: non c'è in sostanza un'evidente evoluzione drammatica dell'intreccio narrativo.
L'obbiettivo di Linklater è quello di estrapolare uno spaccato di vita giovanile, epurato dalla classica drammatizzazione filmica e nascondendo il più possibile la mano esterna dell'autore. Le storie d'amore sono solo accennate, le amicizie fragili e mutevoli, l'energia dei festeggiamenti si carica ma poi si sgonfia varie volte; nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
Arriva solo l'alba che calma gli ardori ma non sana i conflitti.
Nonostante questa inaspettata maturità stilistica, Dazed and Confused, ha, comunque, ancora tutto il sapore di una sorta di prova generale, quasi dal sapore di saggio di fine universita', dove tutte le tematiche dell'autore in erba, vengono sviscerate, ma al tempo stesso elaborate con mano sicura e poetica già consolidata.
Facendo riferimento alla filmografia posteriore del regista, dopo la visione di “La vita e' un sogno”, è possibile dare un senso ancora più compiuto, grazie all'evidente connessione tra i due lavori, a quella che è una delle opere più riuscite del regista di Seattle: “Tutti vogliono qualcosa”, tacito aggiornamento di Dazed & Confused in chiave piu' adulta e materialista. All'illusione dell'innamoramento sempre in agguato, dietro l'angolo, si sostituisce la concretezza del sesso e della storia misurata in termini di godimento. Alla sincerità del mostrarsi senza filtri, così per come si è, senza paura delle conseguenze, subentra la dissimulazione e la bugia reiterata per ottenere sempre il massimo vantaggio dalle situazioni.
In “Tutti vogliono qualcosa” Linklater asciuga lo stile, ma mantiene, con grande rigore, quello spirito e quei dettami antieducativi ed anti-moralisti che segnano una cifra stilistica molto distintiva e personale, nella filmografia del regista, soprattutto quando è alle prese con il filone generazionalista.
Elevare al rango di capolavoro o almeno di opera di un certo spessore, tematiche facete, socialmente irrilevanti o addiritura moralmente negative, non cercando nemmeno un happy-end consolatorio ed accomodante, è operazione rara e sensibile. Cinema piacevolmente rischioso che non ha paura di raccontare l'istinto umano superficiale ed edonista, il socialmente deprecabile o l'immoralità a fini ricreativi.
Alfred Hitchcocok diceva che il cinema è la vita senza le parti noiose. A margine di questa frase si potrebbe parzialmente aggiornare l'assunto, dicendo che il cinema molto spesso è stato anche narratore della vita, senza i momenti politically scorret, fine a se stessi. Il fine a se stessi è fondamentale. Perchè nei film siamo pronti a perdonare perfino un omicidio, se ha come fine il conseguimento di un tesoro o di un bottino. Perdonare sceneggiativamente parlando. Puntualizziamo.
Il dittico di Linklater non cerca nemmeno giustificazioni ai “bad habits”: ci mostra l'attitudine o l'abitudine sbagliata o irrispettosa, semplicemente perchè fa parte dell'esistenza umana pur non essendo cinematograficamente molta vantaggiosa per l'esito artistico di una pellicola.
Creare un film di questo tipo richiede molta disciplina e sensibilità, sia nella scrittura che nel montaggio, dato che, la penna o la forbice editrice, avranno sempre la tendenza a dare risalto ad uno o all'altro personaggio. È anche molto difficile non essere contagiati dall'esigenza drammatica che vive dentro ad ognuno di noi. Lo sforzo registico si nota ed è notevole.
Emblematico è il personaggio interpretato, da un giovanissimo e mai così cafone, Ben Affleck che domina la scena per una ventina di minuti, con la sua sguaita irruenza punitiva, ma improvvisamente e anche un pò inaspettatamente, se ne esce umiliato per non rientrarne mai piu'.
Ma quello che ulteriormente sorprende è la quantità di personaggi che, anche se per poco tempo, si guadagnano uno spazio significativo nel film. Tra questi spicca Shawn Andrews, mancata star holliwodiana, ma carismatica presenza nel flusso della narrazione. Nella vita reale fu brevemente sposo della ben più famosa Milla Jovovich che ugualemente presenzia la pellicola.
Annotiamo inoltre la partecipazione dell'abbastanza illustre Adam Goldberg, che puo' vantare una solida carriera nel cinema indipendente con virate anche sul comico e quella di Jason London, dalla corposa filmografia, che si è divisa tra televisone e cinema a low budget. Ma la lista è ancora lunghissima. Da scandagliare a piacere secondo la personale curiosita'.
Ultima ma non meno importante dissertazione merita la colonna sonora del film che alterna alcuni monumenti del rock come “Paranoid” dei Black Sabbath, “Hurricane” di Dylan, ed ancora altre pietre miliari di Aerosmith, Alice Cooper, Kiss etc., con tracce molto meno note (Slow Ride dei Foghat e Free Ride dei The Edgar Winter Group, solo per citarne un paio) ma decisamente interessanti da riesumare e conoscere, come testimonianza di un determinato contesto e momento musicale.
Un ultima curiosita': Dazed & Confused è uno dei brani che compongono il celeberrimo primo album dei Led Zeppelin, scritto in origine dal cantantautore folk Jake Holmes. Nonostante dia il titolo al film, non v'è traccia, però, del brano, nella colonna sonora del film.
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