Regia di Oliver Stone vedi scheda film
Un film complesso, oltremodo verboso e compiacente, tutto sommato al di là di una storia che si dilunga fin troppo, traspare una certa poetica e rimangono intatte le critiche di Stone, ciò ne fa un prodotto interessante ma che con scelte registiche più sagge ed un attaccamento meno morboso alla materia letteraria sarebbe stato senz'altro migliore.
Dopo l'esplosivo racconto semi-biografico sulle atrocità dei soldati sul campo di battaglia con "Platoon" e il tormento di un reduce handicappato con "Nato il 4 Luglio" Oliver Stone conclude (?) la sua trilogia sul Vietnam con questo film, stavolta prendendo il punto di vista di una innocente autoctona.
Esso è uno dei più misconosciuti tra i suoi lavori ed anche uno dei più infruttuosi al botteghino insieme a "Talk Radio"; ma se in quest'ultimo Stone viene totalmente incompreso dal pubblico a causa del suo scostarsi dalla sua tipica ottica, il film in questione ha invece delle ben più serie motivazioni per il suo insuccesso.
Stone torna ancora una volta in Vietnam a mostrarci come le atrocità della guerra colpissero indistintamente le persone quali fossero la loro fede o la loro patria, facendolo di nuovo con una messinscena carica e senza filtri, stile "Platoon", aggiungendovi però uno sguardo meno oggettivo e più da kolossal romanzato. Il motivo infatti ce lo dice lo stesso Stone, che dedica il film alla madre:
<<Mia madre Jacqueline, che è francese e adora il cinema americano, ha sempre desiderato che io girassi un film tipo Via col vento>>
Peccato per Stone, ma meglio per noi, che il regista non sia riuscito a staccarsi da ciò che per lui è stato e sarà nella storia il Vietnam, basti vedere i pochi punti in cui tenta di ricreare toni epici come quando il piccolo villaggio vicino Danang viene reso una sorta di luogo "mitico"; Stone si perde e fa fatica a riprendersi da questa contaminazione nel suo genere incalzante, esplosivo ma soprattutto diretto.
Innanzitutto "Tra cielo e terra" non è un film di denuncia né tantomeno un film di guerra, ma è qualcosa di più complesso: è prima di tutto la trasposizione letteraria di due bei libri di Le Ly Hayslip e questo complica già il quadro generale. Stone ricercando l'accuratezza delle fonti bibliografiche dilata eccessivamente la sua opera rendendola ovattata e in alcuni punti prolissa; numerosi sono i tempi morti nei quali il regista ha tentato di riportare fedelmente il contenuto scritto, a scapito purtroppo di un procedimento non filmico ma letterario. Un esempio sono i pensieri e le considerazioni di Le Ly che troppe volte affollano una sceneggiatura, seppur ben scritta, fallace e sproporzionata sotto questo punto di vista.
Stone, inoltre, suggella e si sofferma particolarmente sulle immagini: se in "Platoon" la giungla vietnamita era cornice e ambiente nemico per i suoi protagonisti, qui la cinepresa si sofferma sull'estetica con contemplazioni liriche più simili al cinema di Terrence Malick che a quello di Stone; la natura qui è parte fondamentale della storia, è la regina del lungometraggio nella sua purezza e ambiguità. Raggiunge il suo apice nella rappresentazione della vallata di Le Ly: allo stesso tempo un luogo ove l'uomo di campagna vi si immerge e trova ristoro, ma allo stesso tempo insozzata dalla violenza degli eserciti statunitensi e dai vietcong, ma ciononostante Le Ly continua a preferire la delicata armonia della foresta alla falsa sicurezza e alla perfida ambizione delle casette a schiera americane. Una natura che lo stesso Stone sente vicina e poetica definendola così:
<<ogni volta che la tocco, sento che è unica e la magia che ha in se è qualcosa di immenso che può essere percepito solo da chi la vive con passione ; capisco come tanti nei secoli l’abbiano voluto fare loro perché è una perla di prima grandezza ma niente nelle mani di chi non la ama.>>
In particolar modo, Stone dimostra come i nostri demoni interiori non possano essere sconfitti semplicemente con una società più florida e benagiata attraverso la figura di Steve Butler, che dopo quella positiva di Ron Kovic, la sfrutta per mostrarci il lato peggiore del reduce. Allo stesso tempo la stessa Le Ly, sconfiggerà il suo karma negativo non nel lusso dell'America quanto nello splendore della natura vietnamita.
Stone non risparmia colpi: malgrado abbia tentato di variare il suo linguaggio cinematografico e pur avendo sotto le mani una sceneggiatura che si sofferma principalmente sulla voglia di vivere e l'amore a dispetto del dolore di Le Ly, lascia intatto il suo voler mostrare le brutture della guerra, senza peli sulla lingua. Lo stupro dei vietcong, la prostituzione, la violenza di Butler sono scene intense che rimarranno impresse a lungo nello spettatore.
Ed a proposito di scene forti, un plauso va senz'altro alla sequenza da antologia del suddetto lungometraggio, cioè il supermercato: Le Ly si ritrova immersa in un esplosione di colori, in un'abbondanza che la lascia senza fiato; un luogo così ordinario per gli occidentali diventa una sottospecie di eden o cornucopia agli occhi di una ragazza orientale che ha sempre vissuto con prodotti della terra e andando saltuariamente al mercato per legumi o verdure stagionali; un'occasione, questa, per il confronto tra la ricca e sgraziata America sovrappeso contro il povero, ma elegante Vietnam, oltre a ciò è anche una scena struggente che ci riporta alla memoria la prima parte del film, in cui era proprio la fame a farla da padrone, coronata da una battuta dolcissima pronunciata da Le Ly che si chiede se anche domani troverà tutto quel ben di dio sugli scaffali.
Tolto il simbolismo rimangono buoni aspetti tecnici che forse vogliono troppo ricalcare il successo di "Platoon" e quindi si limitano a ricalcarne i precedenti effetti. La fotografia di Richardson (da sempre collaboratore di Stone) nella prima parte usa medesimi chiari-scuri, al punto che sembra quasi esser tornati nella foresta di 7 anni fa, meglio nella seconda parte in cui grazie ai contrasti vi è la capacità di mostrare l'apparente ricchezza statunitense: una rete di colori nitidi e caldi che in realtà coprono zone d'ombra ben più oscure di quelle delle foreste vietnamite.
Il resto risente troppo dello stile epico che Stone voleva affibbiare al film incluse le musiche di Kitaro, davvero troppo cariche e pompose; precipitano quasi nell'arroganza di voler mostrare la presenza di un certo contenuto.
Certo è che Hiep Thi Le se la cava benissimo in una figura capace di elargire solo amore, quasi angelica ed estranea al male oscuro che gli uomini le sputano addosso, in più vi è un Tommy Lee Jones perfetto nel concludere il discorso iniziato da Stone con Ron Kovic, mostrandoci un soldato angosciato dagli orrori della guerra e ormai tutt'uno con la violenza che sempre più trapela dalla sua figura fino all'inevitabile scoppio finale.
Per concludere un film complesso, oltremodo verboso (soprattutto nella seconda parte) e compiacente, ma tutto sommato al di là di una storia che si dilunga fin troppo, traspare una certa poetica e rimangono intatte le critiche di Stone, ciò ne fa un prodotto interessante ma che con scelte registiche più sagge ed un attaccamento meno morboso alla materia scritta ne sarebbe venuto qualcosa di meglio.
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