Regia di Fernando Di Leo vedi scheda film
Però. Si vede che quando aveva libertà d'azione e capitali appena sufficienti (qui si giova dei marchi della coproduzione tedesca) Di Leo sapeva fare dei film di genere di ottima riuscita. Quale genere? E' chiaro che non si tratta di un poliziesco, perché se c'è un grande assente, in questo film, è proprio la polizia, che, tra tutti questi omicidi, estorsioni, pestaggi, non mette fuori la testa neanche una volta. L'unico rappresentante della legge che si vede nel film è un povero pizzardone che sta dirigendo il traffico e si trova in mezzo a un inseguimento del protagonista (fra l'altro una delle sequenze tecnicamente più pregevoli del film). Direi che si tratta di un gangster movie italiano di robusta fattura, che porta impresso il marchio di fabbrica dileiano, a partire di una fotografia come se ne vede di rado (di Erico Menczer) ed un incipit che non può non restare nella memoria. La cifra stilistica del film è il romanzo picaresco, ben rappresentato da questo protagonista (Baer) sbruffone, doppiato in romanesco, che sembra un nipotino ripulito, nella faccia e nel linguaggio, del trucido di Tomas Milian. Vi sono rimandi anche al western leoniano, in particolare a C'ERA UNA VOLTA IL WEST, cui rimanda la trama con l'antefatto che prelude ad una vendetta a lungo meditata. Su tutti giganteggiano la faccia violenta e tagliente del boss Jack Palance e l'ironia di un Vittorio Caprioli alle prese con una pistola che fa i capricci.
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