Regia di Registi vari vedi scheda film
Anacronistico, oggi come allora, realizzare un film incentrato sulla celebrazione elegiaca del matrimonio? Forse. Ma c’è una ragione nell’operazione di Sposi: la filosofia avatiana. Quel rifarsi al passato, gustando i sapori dimenticati nel tempo, afferrare le sensazioni altrimenti sotterrate da troppo cemento colato sulla terra. Avati non è un filosofo, e mai lo sarà, ma ha un modo tutto suo di concepire il cinema in funzione della vita (specie se rivolta al passato).
Sposi si sviluppa in cinque frammenti diretti da altrettanti registi: ma la matrice di fondo resta spudoratamente quella di Avati e, d’altronde, i vari Bastelli, Farina, Mannuzzi e Avati (il fratello di Pupi, produttore, nelle insolite vesti di regista) hanno influenze molto evidenti riconducibili al cinema avatiano. La mano lieta del regista bolognese si sente evocativa nell’intero film, non solo nel suo episodio (tra l’altro, il più patetico e triste). Che, nell’insieme, si rivela sì omogeneo e non discontinuo, non privo di una sua originalità narrativa, ma anche esile, flebile, deboluccio qua e là proprio nel mantenimento strutturale dell’opera.
Apre il film un matrimonio filmato in stile pseudo-amatoriale e lo chiude un altro filmino: sono zampate curiose e bizzarre (perché inusuali), realizzate dal recidivo Luciano Emmer, vero antesignano del cinema avatiano (Camilla e Domenica d’agosto conservano caratteristiche di cui Avati si serve ancora oggi). Pupi Avati: dirige con mano mesta l'episodio più patetico (con un Jerry Calà drammatico ante Ferreri); Cesare Bastelli: sembra più avatiano di Avati (ma forse è la partecipazione di Delle Piane a far uscire fuori di pista); Felice Farina: il più malinconico; Luciano Mannuzzi: quasi felliniano, qua e là elegiaco, ma debole; Antonio Avati: il più simpatico e lieto.
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