Regia di Alberto Sordi vedi scheda film
Un filmetto così e così, non certo un capolavoro. Caruccio, però. Gradevole per le situazioni strampalate, per lo spaccato di storia (fatta di piccole storie, anche di balordi ed emarginati), per la divertente colonna sonora che include Ma, ‘ndo Hawai (se la banana non c'è l'ha), Polvere di stelle (Stardust), Sentimentale, Addio sogni di gloria, L’amore è un treno, …
Siamo nel settembre del 1943, a Roma.
Mimmo Adami (Alberto Sordi) e Dea Dani (una strepitosa Monica Vitti), marito e moglie, lavorano nel varietà: lui è il capocomico, lei la soubrette. Lavorano per modo di dire: la guerra ha portato la crisi e sui palchi polverosi dei teatri non c’è posto per tutti (mentre per tutti c’è la fame, e i grandi comici, fra cui Dapporto e Alvaro Vitali, citazione felliniana, bighellonano in cerca di ingaggi nella Galleria Colonna, ora intitolata a Sordi).
Mimmo, ridotto alla miseria e alla fame, accetta la scritturazione per una tournée nell’Abruzzo proprio quando l’Italia è spaccata in due dall’armistizio dell’8 settembre e raffazzona una compagnia di morti di fame che accettano i rischi. Durante un trasferimento notturno su un carretto trainato da cavalli, hanno perfino la ventura di essere sorpassati dalla colonna del re in fuga da Roma occupata dai tedeschi.
Attraversano l’Appennino e approdano sulla sponda adriatica, dove vengono catturati dai fascisti; si salvano dal plotone d’esecuzione grazie a Dea, sono forzatamente imbarcati per essere condotti a Venezia a disposizione delle truppe tedesche e dei repubblichini fascisti di Salò. Marinai partigiani si impadroniscono del barcone, si liberano dei tedeschi e invertono la rotta verso sud.
La scena si sposta a Bari, occupata dagli alleati. La compagnia di Dani-Adami, l’unica presente in città, si ricompatta e ottiene di organizzare un suo spettacolo (“Polvere di stelle”) nientepopodimeno che nel Petruzzelli.
Il popolo bue e le truppe di occupazione di bocca buona decretano il successo dei rivistaioli d’accatto, che un po’ si montano la testa. Perfino Dea si abbandona a illusioni Holliwoodiane e si innamora di un bel soldatino americano.
Ma l’amore e la gloria finiscono presto: il bel marinaretto (interpretato da John Phillip Law, quello di Barbarella e Diabolik) viene rimpatriato, le truppe alleate lasciano Bari per risalire la penisola e liberare l’Italia, nel meridione torna la (quasi) quotidianità. Anche le grandi compagnie di varietà si riorganizzano, e arriva Totò; la scalcagnata troupe di Dani e Adami viene licenziata; i sogni si infrangono, le stelle vanno in polvere, la normalità risommerge pateticamente tutto. I due guitti tornano a Roma, e lì - good bye - si chiude il cerchio.
Il film, come dicevo, non è certamente un capolavoro, ma conserva alcuni piccoli meriti: nella prima parte racconta con verve un momento irripetibile della storia dello spettacolo e del costume (il mondo del varietà, nei suoi splendori e nelle sue miserie); certamente non lo fa con la onirica potenza che Fellini ha dispiegato, solo un anno prima, in Roma. Ma descrive bene (grazie agli immensi sceneggiatori Maccari e Zapponi), e con una giusta dose di amorevole nostalgia, sia lo squallore degli spettacoli allora in voga nella profonda provincia (con battutine comiche deprimenti, allusioni goliardiche, doppi sensi di pessimo gusto, umorismo d’accatto), sia l’altra faccia della medaglia (la dimessa realtà che trapela quando si spengono le luci della ribalta, le piccole quotidianità dei guitti, le fatiche, le vite sospese, le pezze dignitose che rimpiazzano i costumi di scena, i trucchi e i parrucchi, i bagagli trascinati sui treni, i letti sempre provvisori).
Nella seconda parte si passa dalle piccole storie alla grande storia e l’attenzione si sposta sugli sfondi, in campo lungo (descrivendo con efficacia la precarietà di un passaggio euforico come quello vissuto a Bari nella primavera del ’44).
Ma inevitabilmente la narrazione si sfarina, perde mordente, diventa stucchevole e scontata, e anche un poco indigesta, con alcuni ingredienti “di troppo”… Anche Sordi regista, si sente, si diverte meno. La storia si disperde nel triangolino melodrammatico e insulso col marinaio spilungone; Sordi gigioneggia indossando la maschera dolente del cornuto e mazziato; nessuno controlla niente.
Un miglior regista (Scola, Monicelli, Comencini o magari Zampa o Risi) sarebbe stato in grado di ricavare qualcosa di meglio dal soggetto.
Grandi le interpretazioni dei due protagonisti: con Sordi che aggiunge un’altra sfaccettatura alla sua infinita galleria degli italiani mediocri e Monica Vitti che, diciamolo, salva il film tornando a lavorare con Sordi dopo Amore mio aiutami, e confermandosi come “comica” dopo la tetralogia dell’incomunicabilità di Antonioni.
Indimenticabile la colonna sonora (di Piero Piccioni), ricca di suggestioni d’epoca che quasi quasi fanno apparire il film come un musical (e sicuramente ne sostengono la trama).
A puntellare l’impalcatura traballante troviamo tre citazioni furbe: il cameo di Carlo Dapporto, barzellettiere a mitraglia, l’apparizione della superdiva supersvampita Vanda Osiri(s) nei panni di se stessa e i manifesti di uno spettacolo di Totò che nel film sancisce la fine delle fortune dei protagonisti e nella realtà - metafora - ha segnato la morte del Varietà decretata soprattutto dalla strepitosa fortuna del Cinema (Totò, fra il ’45 e il ’50 giro ben sedici film; in seguito mantenne la media di 3-5 film ogni anno: otto nel ’54, nove nel ’63).
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