Regia di Maha Haj vedi scheda film
A Nazareth, Saleh e Nabila, una coppia di mezz’età, si trascinano senza emozioni in un ménage coniugale che pare essersi consumato da quando i tre figli hanno lasciato il nido. Mentre nella vicina Ramallah Tarek vivacchia come aspirante sceneggiatore e Samar aspetta un bambino dal marito carrozziere, i due genitori, per ravvivare il logoro rapporto, accettano l’invito di Hicham, che lavora in Svezia come ricercatore. L’esordio di Maha Haj parte come una buffa per quanto malinconica radiografia di un’incomunicabilità: lui ignora lei e non stacca mai gli occhi dal computer; lei asseconda lui e s’abbandona alle telenovelas e all’uncinetto. Poi, senza troppi annunci, il baricentro si sposta sui figli, un po’ per sottolineare l’idea di un malessere diffuso ed evitare le trappole del racconto generazionale e un po’ per incentivare la storia corale di una famiglia che si fa coacervo di contraddizioni e diverse emozioni.
Lo sfondo del conflitto israelo-palestinese entra prepotentemente nella quotidianità e riesce a non imprigionare il film nei limiti del tema. E questo accade proprio perché la dimensione politica è lo sfondo, per quanto significante, di una storia che si articola sul significato del termine “limite”: di osare (la madre), chiedere (il padre), ricordare (la struggente nonna con l’Alzheimer), superare (il marito della figlia che vuole vedere il mare). Probabilmente il filone sentimentale con l’amore mai esplicitato tra Tarek e la bellissima Maysa trova una propria ragione d’esistere soltanto quando il politico s’impossessa del privato, e forse è il mondo del non-detto abitato dal solitario e fascinoso Hicham a funzionare in una prospettiva minimalista. Ma è una agrodolce e malinconica corale che sorridendo suggerisce più di un’inquietudine.
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