Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
La sterminata e desolata provincia dell’entroterra americano, rappresenta il residuo del mito della frontiera morto e sepolto; eppure in tale luogo Kathryne Bigelow, vi ambienta i suoi due primi film girati negli anni 80’.
L’esordio The Loveless (1981), metteva in opposizione una comunità a sé stante – quella dei bikers –, con la società statunitense, elemento fondante della poetica della regista, che si trascinerà in tutte le sue opere successive, compreso il suo secondo lungometraggio Il Buio si Avvicina (1987), dove il focus è spostato su un gruppo di “outsiders” – i vampiri –, in un continuo vagare negli Stati Uniti del sud, fondendo l’immaginario western con gli stilemi orrorifici.
Un B-movie per produzione e budget – appena 5 milioni, a fronte di un deludente incasso ai botteghini di appena 3 -, ma non nello sguardo di una Bigelow, in grado di innestare slanci violenti e visionari, che squarciano attraverso lampi di luce, l’oscurità di un immaginario vampiresco ridotto all’osso e portato alla sua essenza primigenia: il morso sul collo e la disintegrazione al contatto con i raggi del Sole.
Sangue e amore. Eros e thanatos. Buio e luce. Negli ossimori, Bigelow cerca la linea d’arrivo oltre l’infinito orizzonte in cui si perde lo sguardo, come nel più classico dei film western. La notte si presenta oscura, ma mai del tutto buia, venendo sempre lambita da un fascio di luce, che siano delle insegne al neon, illuminazione artificiale oppure la luce stellare, con il suo carico di misteri ancestrali, amplificati dalle sonorità cosmiche delle composizioni musicali dei Tangerine Dream.
In una delle innumerevoli notti sempre uguali a sé stesse, Caleb (Adrian Pasdar), viene morso da Mae (Jenny Wright), venendone contagiato, ma senza uscirne stravolto, come l’impianto western di base alla storia, contaminato dall’elemento “estraneo” dei vampiri, i quali però colgono in pieno lo spirito della vecchia “frontiera” e delle sottoculture anni 60’, essendo gli ultimi residuati di una libertà senza regole, oramai tramontata.
Il violento clan dei vampiri a cui Caleb viene forzatamente costretto ad unirsi, viene capitanato da Jesse Hooker (Lance Henriksen) e Diamondback (Janette Goldstein), a cui si devono aggiungere oltre a Mae, anche Homer (Joshua John Miller) e Severen (Bill Paxton). Un gruppo che si considera una famiglia, muovendosi attraverso le infinite strade desertiche e polverose tramite camper, roulotte e macchine rubate.
L’unico modo per essere accettati, consiste nell’uccidere altri esseri umani nelle ore notturne, nutrendosi del loro sangue, cosa a cui Caleb si dimostra riluttante, provocando l’ira del gruppo, venendo difeso solo da Mae, innamoratasi di lui.
Questa ossessione sentimentale tra Caleb e Mae, diviene il fulcro tematico di un melodramma ardente, che consuma i vari personaggi sino al loro destino ultimo.
Le fiamme generate dalla luce solare al contatto della pelle dei vampiri, più che le carni, ne consuma sino all’ultima goccia vitale la loro stessa filosofia di vita, dedita ad un’esistenza sgretolata di stampo anarchico/post-punk, in un presente eternamente ripetuto.
I vampiri – termine tra l’altro mai usato nel film –, divengono quindi gli ultimi autentici ribelli ad un sistema sociale sempre più conformista, nel pieno dell’edonismo reaganiano anni 80’. Non è un caso quindi il parallelismo costruito dal montaggio, tra le pompe petrolifere che estraggono l’oro nero dalla terra – il capitalismo corrode una frontiera oramai desertificata nello spirito –, accostata a Caleb intento a succhiare il sangue dal polso di Mae, in cui scorre la vitalità di una possibile alternativa al conformismo sociale data, come sempre nel cinema di Bigelow, dal femmineo, componente che si ritroverà nei successivi Point Break (1991) e Strange Days (1995).
Questa famiglia strana, a tratti disfunzionale, non smarrisce mai i tratti ferini, tipici della specie da essi incarnata. Bigelow ci risparmia gli elementi gotici caratterizzanti i vampiri come i paletti nel petto, l’aglio, il non riflesso allo specchio o le zanne – solo Lance Henriksen presenta unghie lunghe ed affilate, dovute però alla scelta dell’attore -, andando al succo della loro natura bestiale, che si pone come specie evolutiva rispetto all’uomo, scalzando quest’ultimo dalla cima della catena alimentare, andando sulla scia del Nosferatu di Murnau (1922).
Predatori sicuri del proprio posto nell’ecosistema, creature della notte dall’indole freak, situate ai margini della società, dei cui componenti si nutrono. Braccano e giocano a modo loro, con le proprie vittime, terrorizzate dalla scoperta di un mondo ben più irrazionale di quel che immaginavano, uccidendole secondo la propria variopinta indole comportamentale; un frasario da cowboy prima del colpo mortale da parte di Severen, una lugubre battuta secca tipica di un principe della notte uscito da un’altra epoca come Jesse oppure la dolce tenerezza sbarazzina di Mae nell'atto di concedere un ultimo ricordo prima della morte.
Questa ribellione al sistema non viene – e non verrà mai in futuro – portata da Kathryn Bigelow, alle sue estreme conseguenze abbracciando in toto il credo degli emarginati. Al massimo se ne subisce il fascino, ma Caleb nel profondo, resterà sempre fedele alla sua famiglia d’origine, rifiutando la sua nuova natura, a favore dei panni più comodi e tranquillizzanti dello sceriffo a cavallo, che si oppone alla disumanità-umana dei vampiri, pronti ad auto-consumarsi tra fiamme ardenti, per perseguire il proprio destino ultimo, come si richiede ai più estremi e disperati melodrammi.
Il fuoco vitale pulsante che circola nelle vene di tali personaggi, risulta lo stesso del cinema della Bigelow, appropriatasi di un immaginario maschile e machista, riplasmato pero' attraverso il filtro della sensibilità artistica femminile, mettendone in risalto la più intima componente umana, dando visione della figura vampirica sia visceralmente violenta sia passionalmente erotica.
Una dolente fiaba d’amore vissuta seguendo il solco delle rockstar più estreme ed autodistruttive, scolpendo il senso ultimo dell’esistenza, in un finale spettacolare tra fuoco e fiamme, che non tradisce mai lo sguardo alternativo di una cineasta, capace di fissare il sentimento in un’istante fermo nel tempo, innanzi al quale si apre un orizzonte incerto di nuova luce.
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