Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
Dura condanna dell’ipocrisia borghese e del perbenismo cattolico, il film racconta in maniera spietata ed esemplare, una storia di corruzione e prevaricazione, che è anche un saggio sulla misoginia (e sul feticismo), con cui Buñuel sembra voler chiudere da par suo un’ideale trilogia sul tema, dopo Diario di una cameriera e Bella di giorno.
Il particolare interesse che nutro verso il cinema di Buñuel l’ho già ampiamente testimoniato dedicandogli – qualche anno fa – ben tre play. Difficile quindi per me, considerando che è davvero uno dei rari nomi che amo incondizionatamente e “a prescindere”, districarmi all’interno del suo percorso artistico, per definire una sicura e certa scala di valori fra le singole opere, tanto è l’entusiasmo “generalizzato” che mi lega a ogni frammento del suo “fare arte cinematografica” (anche nelle opere più fiacche o meno riuscite ci trovo infatti disseminati “accecanti bagliori” di sublime creatività che - ai miei occhi - riscattano largamente e nobilitano, comunque la si pensi, l’esito complessivo del risultato).
Non è altresì un mistero, perché più volte palesata, anche la mia altrettanto “speciale” aderenza empatica verso il suo Tristana che, pur nella sua apparente anomalia formale (a mio avviso però nemmeno così “realisticamente” comprovata, come cercherò di evidenziare in seguito) io ritengo di dover annoverare fra i suoi vertici assoluti (credo che al di là dell’indiscusso valore che ormai dovrebbe essere universalmente riconosciuto, giochi – riguardo al mio entusiasmo sperticato - il fatto che fin da quando mi ci sono approcciato per la prima volta nell’ormai lontano 1971, anno in cui il film fu distribuito in sala, ci ho ritrovato dentro quella che si potrebbe definire una “affinità elettiva”, o meglio una “riconoscibilità” identificativa, più che verso la storia, che è poi quella di una liberazione mancata (Fofi), proprio nei confronti della “condizione” rappresentata, che si definisce chiaramente, dopo le prevaricanti prepotenze iniziali di don Lope sull’indifesa ragazza a lui affidata, nel ribaltamento della dialettica vittima/carnefice, quell’ambiguo rapporto contrapposto che ha spesso condizionato con le sue connotazioni un po’ perverse (una irresistibile e a suo modo affascinante attrazione morbosa), persino il mio personale vissuto (Tristana infatti imparerà presto e bene, sia pure al prezzo di una devastante tragedia personale, la lezione di ipocrisia e crudeltà impostale dal suo tutore, così da poterla poi utilizzare con deliberata e sadica determinazione, proprio contro di lui).
Tristana (uno dei candidati all’Oscar per il 1971 quale miglior film non in lingua inglese), dopo l’anteprima madrilena del 29 marzo 1970,fu presentato fuori concorso alla 23esima edizione del Festival di Cannes di quell’anno, dove Buñuel (sia pure ex-aequo con L’inverno ti farà tornare), aveva già vinto nel 1961 la Palma d’Oro con Viridiana.
Si colloca quindi subito dopo Bella di giorno (meritato Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia del 1967, con il quale condivide anche il nome della protagonista femminile) e La via lattea (1968) e immediatamente prima de Il fascino discreto della borghesia (1972). E’ quindi evidente che proprio le differenze di aderenza stilistica, in particolare proprio in rapporto a questi titoli, invece di essere valutate come interessanti e “necessarie” variazioni sul tema, possono essere state al contrario, le ragioni prioritarie e fuorvianti - attribuibili appunto allo sguardo un po’ superficiale e frettoloso tipico di una certa “supponenza” critica dell’epoca – per non riconoscergli integralmente e concordemente, almeno nell’immediato, tutta la sua “complessa” importanza, certamente meglio misurabile alla distanza (c’è una sola sequenza di sogno, questa volta, anche se le immagini dell’amputazione a cui è costretta a sottoporsi la ragazza - spaventosa “trasformazione” del corpo che ne modifica anche l’anima - oltre che quelle “concentrate” sulla protesi della gamba, sono decisamente fuori dal comune e certamente analogamente inquietanti, cariche cioè di una corrispondente ambiguità iconoclasta in cui si rispecchia tutta l’ideologia “fuori da ogni schema” del regista, e questo avrebbe dovuto far riflettere maggiormente anche i detrattori su cosa si nascondeva in effetti dentro quell’involucro solo un tantino più conformizzato del solito).
Come ricordano Alberto Abruzzese e Stefano Masi, comunque a Cannes le accoglienze furono particolarmente calde, tanto che Louis Marcorelles, su Le Monde, guidando il coro delle ovazioni, paragonò la statura del regista a quella di due “mostri sacri” come Renoir e John Ford, che per i francesi in quegli anni rappresentavano il gotha assoluto della qualità, ed erano senza dubbio considerati i più grandi e celebrati maestri della storia del cinema.
Dura condanna dell’ipocrisia borghese e del perbenismo cattolico, Tristana descrive infatti in maniera spietata ed esemplare, una storia di corruzione e prevaricazione, che è anche un saggio sulla misoginia (e sul feticismo), con cui Buñuel sembra voler chiudere un’ideale trilogia sul tema, dopo Diario di una cameriera (1963) e il già citato Bella di giorno (anche se poi nemmeno questo risulterà così veritiero, visto che ci sarà ancora dopo, una successiva, stupefacente, ulteriore appendice. con Quell’oscuro oggetto del desiderio del 1977). Il collocamento temporale inoltre è solo “casuale”, motivato cioè dalle implacabili e imperscrutabili (ma discutibilissime) regole della censura e del mercato, poiché se davvero di trilogia si dovesse parlare, Tristana avrebbe dovuto rappresentarne semmai il primo capitolo, visto che il progetto è antecedente di molti anni rispetto alle opere citate: “Tristana stavo per realizzarlo nel 1952 con Ernesto Alonso e Silvia Pinal. E’ uno dei romanzi peggiori di Galdós, del genere «Ti amo piccioncina mia», davvero di pessimo gusto. Mi interessava solo il dettaglio della gamba tagliata. Curiosamente, era un particolare che affascinava anche Hitchcock. Durante una cena offertami dai registi di Hollywood, Hitchcock, seduto al mio fianco, continuava ad esclamare: “Ah, la gamba tagliata di Tristana!…”. Bene, negli anni Cinquanta il progetto non ebbe seguito. Nel 1962 tornai ad accarezzare l’idea: il film si sarebbe dovuto girare in Spagna con la Epoca Film (si mise in moto così un’altra produzione con un differente cast). Pensavo a Fernando Rey, eccellente in Viridiana, e a una giovane attrice italiana che mi piaceva molto, Stefania Sandrelli. Ma lo scandalo di Viridiana impedì che il progetto andasse in porto: la censura non voleva più che Buñuel filmasse in Spagna. Passarono altri anni e tornai a presentare il progetto. Ma Fraga Iribarne [Ministro del Turismo dal 1962 al 1969 sotto il regime Franchista, poi ambasciatore spagnolo in Inghilterra e successivamente Ministro dell’Informazione] si opponeva e non fu possibile fare di più: girare un film in terra spagnola continuava ad essermi precluso. (…) Il divieto venne tolto solo nel 1969 e diedi così il mio consenso ai due produttori, Eduardo Duncan e Gurruchaga, per partire operativamente. Anche se mi pareva che non facesse parte in alcun modo dell’universo di Galdós, ritrovai con piacere fra gli interpreti il nome di Catherine Deneuve che mi aveva scritto più volte per parlarmi del ruolo.” (“Buñuel secondo Buñuel”, a cura di Tomás Pérez Turrent e José de la Colina, Ubulibri, 1963 e “Mon dernier soupir” di Louis Buñuel, editato in Italia da Rizzoli con il titolo “Dei miei sospiri estremi”).
Non è in ogni caso ipotizzabile che nel 1952 o nel 1962, ove il film fosse stato effettivamente girato, quel Tristana avesse poi potuto avere le caratteristiche definitive di ciò che Buñuel ha realizzato davvero, e non solo per i differenti momenti storici e le diversificazioni sostanziali della tipologia anche fisica degli interpreti, ma proprio in considerazione del fatto che in precedenza non era stata elaborata nemmeno una sceneggiatura, e quindi si trattava semplicemente di “un’idea” particolarmente stimolante – quasi ossessiva per il regista si potrebbe azzardare a questo punto, il che confermerebbe la specialissima e particolare cura prestatagli – da sviluppare e programmare nei dettagli per metterla a fuoco con la necessaria precisione. Quindi ogni ipotesi o supposizione al riguardo, diventa un’aleatoria ed arbitraria divagazione a latere che ha davvero poca importanza e ancor meno valore.
Come si è visto dunque, il film è tratto da un romanzo di fine Ottocento di Benito Pérez Galdós, che con un altro suo scritto già aveva fornito al regista l’ispirazione e la traccia per il suo Nazarín. Non conosco il racconto, che è uno dei meno diffusi e conosciuti all’estero di questo autore, ma per quanto se ne sa (riferendosi principalmente alle dichiarazioni tutt’altro che entusiastiche di Buñuel), non è certamente considerato una delle sue migliori prove, il che ha consentito al regista di operare con maggiore libertà di pensiero senza il vincolo di un ossequio rispettoso alla “sacralità” della fonte (ed in effetti gli interventi e le variazioni, con la collaborazione in fase di sceneggiatura di Julio Alejandro che già lo aveva aiutato per altre opere fondamentali come Nazarín, Simón del deserto e Viridiana, saranno molteplici, a partire proprio dal finale, tanto che in una conversazione con Max Aub, Buñuel esternò la propria intenzione, poi rientrata, di indicare semplicemente che il film era “solo” ispirato” all’opera di Pérez Galdós). Buñuel ammirava molto il romanziere, uno dei più importanti autori letterari spagnoli del XIX secolo, autore fra l’altro di una monumentale opera in 46 volumi, Episodios nacionales, che era una specie di cronaca romanzata della storia spagnola fra il 1805 – battaglia di Trafalgar – e la restaurazione borbonica de l876. Deprecava anzi che, dopo la fama ottenuta in vita, fosse caduto in un incomprensibile oblio, dovuto probabilmente proprio all’isolamento culturale e in qualche modo “negazionista” della Spagna franchista, e questo nonostante il potente realismo di stampo balzacchiano dei suoi romanzi, non esente da reminiscenze romantiche, ma pervaso da un crudo naturalismo particolarmente attento a mettere a fuoco le sfaccettature psicologiche dei personaggi, specialmente quelle dei disadattati e dei reietti. La sua titubanza quindi era una “deferente” attenzione che avrebbe voluto riservare allo scrittore per non fargli torto, ben sapendo che poi lui ci sarebbe andato giù pesante con le modifiche, come effettivamente accadde. Rispetto al libro, Buñuel infatti, oltre a reinventare totalmente il finale, posticipa anche gli eventi dall’Ottocento alla soglia degli anni Trenta, spostando la vicenda da Madrid alla provincia di una Toledo percorsa dai fremiti delle agitazioni sociali di quegli anni. La cornice culturale, sociologica e politica, viene così ad essere sostanzialmente variata, mantenendo però intatte le situazioni canoniche del romanzo d’appendice della fonte, con una linearità solo apparente dello svolgimento e dell’assunto, che è però un palese invito a farne una decodificazione mediata che non si arresti semplicemente di fronte alla meccanicità dei fatti, ma che sia capace di leggere in filigrana le valenze sotterranee e simbologiche, poiché se il regista non rinuncia ad una narrazione di tipo naturalistico nel solco dello scrittore, riesce contemporaneamente a sfuggire alle insidiose trappole del melodramma fine a se stesso, ancora una volta evitate, come in tutta la sua opera, proprio ricorrendo all’ironia un po’ perfida del suo sguardo. Un andamento dunque che sembra non voler presentare sorprese, classico e pastoso in superficie, ma che sottotraccia invece, restituisce integre - e per questo ancor più penetrativamente conturbanti - tutte le tematiche personali e “private” del regista (feticismo, religione, masochismo, erotismo, movimenti dell’inconscio) perfettamente innescate sullo sfondo “disturbato” di una società in crisi non solo sotto il profilo delle ideologie e dei comportamenti, poiché in questo film - davvero ammirevole per la calma lentezza della sua concisione - è proprio la trasparenza di un oggettivo, equilibrato classicismo, a stimolare, affascinandolo, l’interesse (oltre che la curiosità) di chi osserva dalla sala. Tutto questo, naturalmente, senza dimenticare, né tantomeno “tradire”, quella che potremo considerare una delle nozioni chiave davvero fondamentali del surrealismo, definita e teorizzata da Breton fin dal suo primo manifesto (e sposata in toto dal regista) che riguarda appunto quella disposizione dell’inconscio che attrae nei propri territori la realtà, ovvero della realtà che “si apre una strada nell’inconscio”, e che trasforma così la realizzazione apparentemente casuale di un desiderio, in una necessità reale da soddisfare.
Buñuel descrive con particolare accuratezza un ambiente provinciale che ben conosce, e lo carica di significati simbolici (oggetti, luoghi, gesti, atmosfere) di straordinaria pregnanza evocativa e riesce così a costruire un mondo inquietante e affascinante in cui lo spettatore può leggere in controluce i riferimenti ai propri incubi e alle proprie pulsioni. Il tutto, immerso dentro i colori polverosi, opachi, quasi sporchi, della fotografia, inconfondibile e pertinente, di José F. Aguayo, una scelta felicissima (dopo una prima ipotesi che aveva previsto la possibilità, analogamente stimolante, di un utilizzo di Peppino Rotunno) che riconfermava al suo fianco un artista che già aveva contribuito a rendere grandiosa Viridiana: molti i piani-sequenza disseminati nel percorso, che sembrano a volte voler trasformare i luoghi in immaginari labirinti in cui smarrirsi, incupiscono le atmosfere o contribuiscono egregiamente a sottolineare la sottile ambiguità dei dialoghi, poiché il film è anche molto “attrattivo” sul piano figurativo, con riferimenti visivi che rimandano direttamente a nomi fondamentali della pittura come Zurbarán, Velásquez, o José de Riveira.
Molteplici le interpretazioni possibili anche per Tristana, dunque, oltre a quella che mette in primo piano la critica delle contraddizioni di una società liberale, proposta a vari livelli e centrata su alcune relazioni provinciali (Ricardo Muñoz-Suay), poiché l’opera perfettamente compiuta (e tutt’altro che spenta e accademicamente formale come è stata a volte stigmatizzata) è un film vitale e polemico in cui la complessità stilistica si riflette soprattutto nella poliedricità dei due personaggi principali (G. Tinazzi). Il regista concentra infatti la sua attenzione prioritaria soprattutto su don Lope e Tristana (il terzo lato del triangolo rappresentato dal pittore Horacio, è in effetti per lui di secondaria importanza, una sfumata figura di comodo, che non si peritò a definire solo necessaria per gli sviluppi drammaturgici della storia, senz’altro meno “fondamentale” come interesse, persino rispetto al servo muto al quale Tristana si mostrerà nuda e mutilata dalla terrazza, in una delle scene più erotiche e sconvolgenti di tutto il film proprio perché il regista fa una scelta radicale e niente ci consente di vedere di quel corpo, nemmeno gli ovvi particolari del seno, riuscendo proprio per questo a stimolare con sorprendente coinvolgimento sensoriale tutta l’immaginazione voyeristica dello spettatore, perfettamente mascherata dietro la pudica riservatezza della macchina da presa).
Don Lope in particolare (con la sua monumentale prestazione attoriale Fernando Rey ce ne offre una stupefacente caratterizzazione densa e sfaccettata) è, fra tutti, il personaggio più ambivalente e diviso, quello più contraddittorio, un tipico rappresentante della borghesia terriera spagnola che non ha esitato a scendere a patti col fascismo franchista e a sostenerlo, pur di mantenere il proprio potere, al tempo stesso difensore delle leggi e dell’onore e ripugnante seduttore di innocenti (un raffronto che è già di per sé una contraddizione in termini) che inizia possedendo Tristana, e finisce “posseduto” da lei (ovviamente in senso metaforico); brillante ed estroverso intrattenitore ma anche autoritario padrone di casa, odioso tiranno e tenero innamorato, sempre e comunque perfettamente consapevole della sua mutevole doppiezza che conosce e teorizza con assoluto pragmatismo: “Sono tuo padre e tuo marito e mi comporto come l’uno e l’altro a seconda dei casi” risponderà a un certo punto alla ragazza, e c’è una definizione così approfondita nei particolari psicologici, che lascia immaginare qualche latente sottofondo identificativo, per altro non negato dal regista, anche se non amava insistere molto su questo punto e preferiva dichiararsi soprattutto dalla parte di Tristana, che gli interessava invece di più sicuramente per quella metamorfosi straordinaria (e al tempo stesso terribile) che trasformerà la passività iniziale in una tirannica e fredda rivincita.
E’ la condizione della mutilazione dell’arto ciò che - conformemente a quanto ha dichiarato - sembra affascinarlo maggiormente: feticisticamente attraente insomma, ma anche ripugnante limitazione (e in questo c’è una evidentemente una relazione sessuale un po’ perversa che invece di togliere attrazione erotica al film, ne aggiunge tantissima) e la Deneuve, Tristana a tutto tondo, è ancora una volta bravissima a rappresentare le due facce della medaglia (indimenticabile ed inquietante quel ticchettare delle stampelle sul pavimento con i movimenti sghembi della gamba posticcia e la fredda determinazione dello sguardo).
Più decorativamente defilato invece – proprio come il personaggio che è chiamato a interpretare - Franco Nero che svolge con diligenza il compito e non sfigura, ma che non ha poi davvero molte occasioni per brillare, oltre che quella di mettere in evidenza la sua attraente fisicità.
Ottimi tutti gli altri, soprattutto Lola Gados (Saturna, la domestica) e Jesús Fernandez (il servo muto figlio di Saturna) ed efficace la colonna sonora tutta giocata su Chopin (Studio op. 10 n. 2).
Mi piace comunque concludere riportando una acuta e pertinente osservazione di Giovanni Grazzini, che trova una aderenza completa con il mio pensiero: La morale del film, che la repressione della libertà è un delitto degli ipocriti pagato col disordine della natura, è senza dubbio una delle possibili chiavi di lettura, ma con Tristana l’anarchico Buñuel ha tentato di andare, al di là della critica sociale, alle radici del vero, dunque del tragico e del crudele, che governa l’universo.
Siamo dunque nella Spagna del 1929: la giovane Tristana si trasferisce, dopo la morte della madre, nella piccola città di Toledo. Qui verrà mantenuta dal suo tutore, don Lope, appartenente alla classe borghese. L’uomo, sebbene in età avanzata, è attratto dal fascino della ragazza e comincia a circuirla. L’affetto che il vecchio e stimato uomo le dimostra, una vera e propria passione senile, è così pressantemente che Tristana finisce per assecondare le sue richieste. Si sente però in in trappola, e approfitta della prima occasione per scappare. Così, dopo aver conosciuto Horacio, un giovane artista, parte per Madrid. Una trasferta che durerà due anni. Ammalatasi ad una gamba, infatti, Tristana torna sconfitta dal suo tutore, nel frattempo diventato ricchissimo grazie ad una cospicua eredità. Nonostante le cure ricevute, Tristana deve subire l’amputazione della gamba: un evento doloroso che cambia il carattere della donna, fino al tragico epilogo
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