Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
Giardini di pietra è stato uno dei tanti film sfortunati di Coppola, anche se, nel corso degli anni, ha avuto almeno l’opportunità di venire rivalutato. La sua sfortuna principale è quella di essere un film sul Vietnam uscito a ridosso di un capolavoro come Full Metal Jacket (per di più dopo un altro capolavoro, dello stesso filone vietnamita, dello stesso Coppola come Apocalypse Now), e comunque in un periodo di film che affrontavano la “sporca guerra” (brutto termine, come se ve ne fosse mai stata una pulita) di petto, o meglio, con le viscere: si pensi a Rambo 2, Platoon, Hamburger Hill. Rispetto a quell’approccio al Vietnam, qui siamo in un’altra dimensione: non c’è la giungla ma i giardini di pietra (il pratino con le miriadi di croci bianche del cimitero militare di Arlington), e i militi si sentono dei soldatini di piombo, costretti a recitare una sorta di teatro kabuki che si ripete ritualmente ad ogni cerimonia funebre ed a sparare, anziché contro il nemico, dei colpi a salve, in onore dell’ennesimo caduto. Anche rispetto alla filmografia coppoliana precedente, oltre che ai film sopra ricordati), Giardini di pietra è un film implosivo, dove tutto è destinato a congelarsi e stemperarsi anziché a deflagrare, compresa la presunta ideologia reazionaria che ne starebbe alla base. In realtà, da quest’ultimo punto di vista, il film s’inserisce nella tradizione del cinema americano classico, quello di John Ford, che ha sempre presentato l’esercito come una grande famiglia. Non è un caso che il sergente di James Caan tenda proprio alla famiglia, quella di cui la sua vita militare (è un reduce dalla Corea) l’ha privato, trovando un figlio putativo nell’ufficialetto Willow e una seconda moglie vera in una giornalista pacifista. E non è certo un caso che Hazard attacchi la guerra in Vietnam e se ne freghi perfino del Presidente degli USA, ma difenda l’esercito. Quell’esercito nel quale odia veder cadere tutti quei ragazzi (che vorrebbe preparare meglio per farli uscire vivi dall’inferno asiatico), ma che offre anche a molti, come l’incapace soldato Willard, l’opportunità di mostrare che valgono qualcosa. Un film forse reazionario, ma alla vecchia maniera, più alla John Ford che alla John Wayne (si pensi all’orribile Berretti verdi), certamente non violento, non becero, non biecamente reaganiano.
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