Regia di Lucio Fulci vedi scheda film
Sarò un reazionario snob accademico, ma continuo a credere che generalmente fra i thriller classici statunitensi e quelli moderni italiani (anni 60/70) ci sia un bello scarto in termini di messinscena, gestione dei tempi, costruzione della suspense, amalgama dei toni, professionalità nella confezione, recitazione attoriale etc...Ovviamente ci sono le eccezioni: nessuno nega che "Profondo Rosso" sia un travolgente ed irresistibile meccanismo del brivido da far invidia a tanti colleghi yankee. Non è un mistero che i nostri "spaghetti di genere" (western, horror, poliziesco etc...) siano stati esportati ed apprezzati in tutto il mondo, dagli States al Giappone. Bava non si tocca, nè Freda, nè il primo Argento. Ma Fulci? Opinione mia: non vale un qualsiasi buon mestierante di Hollywood. L'effetto Tarantino ha reso sopravvalutato ciò che forse, ai tempi, era stato sottovalutato. Non era tutta spazzatura la Serie B dei tempi che furono, ma nemmeno tutto oro, come invece vorrebbero le riabilitazioni dei vari Nocturno e simili. Però "Non si sevizia un paperino" va visto. Certo, ha una struttura narrativa caracollante, si articola su una detection i cui passaggi logici sono incollati con lo scotch, ha una tensione che non regge, un abuso di espedienti mixati a casaccio (soggettive, messe a fuoco, bruschi stacchi di montaggio) per shockare più che per coinvolgere o inquietare. Tuttavia, fra tante soluzioni maldestre, saltano fuori felici intuizioni: anzitutto l'ambientazione "rustica", con tanto di popolani che paiono facce neorealiste prestate per un attimo alla causa thriller; le immagini macabre dei tre pupazzi neri perforati e del paperino decapitato; il ribaltamento dei più triti stereotipi sul genere femminile (in un sottogenere spesso accusato di maschilismo); riflessioni non banali sulla suscettibilità della gente "di paese", sulle sue superstizioni, sui suoi segreti inconfessabili, sulle sue pulsioni violente; una rappresentazione senza censure, realistica e sfrontata, dell'infanzia e del suo peculiare rapporto con la sessualità e la devianza; e infine una chiusa avvincente, per nulla scontata, sicuramente memorabile per la sua iconoclasta acidità. E poi ci sono le notevoli interpretazioni di due delle principali sex symbol del cinema italico dell'epoca: una straordinaria, allucinata, assatanata, epilettica Florinda Bolkan, a cui fa eco la nonchalance tanto antipatica quanto conturbante della bambolona Barbara Bouchet, che per l'occasione si piglia un altro bel cazzottone (proprio come in "Milano Calibro 9"). Le due grazie sono protagoniste di due scene particolarmente caratteristiche: il bambino che scopre la Bouchet nuda, sequenza dai tratti onirici, oscura, forse una mera proiezione dei pensieri "sporchi" del ragazzino e momento che "setta il tono" dell'intero film; la Bolkan agonizzante, con sottofondo di musica leggera, sul ciglio della strada, nascosta alle automobili passanti. Pur con tutti i suoi palesi difetti sul piano delle resa formale, resta un ottimo esempio di come, partendo dalla cronaca nera così come dalla semplice osservazione dei comportamenti di gente comune nella vita di ogni giorno, si possano pensare e mettere in immagini le fantasie più perverse.
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