Regia di Lucio Fulci vedi scheda film
Un terribile gioco di bambole. Tra figurine in cera per le pratiche voodoo e pupazzi decapitati, poco importa se anche i cadaveri, in questo film, sono vistosamente riconoscibili come brutti manichini da pellicola low budget: tutto sembra fare parte di un inconscio esorcismo, teso a spostare sulla materia finta l'atroce realtà dei corpi infantili violati. Il tocco grezzo di Lucio Fulci traccia i contorni di un aspro urlo della terra, di quella arida e impervia di un immaginario meridione d'Italia, attraversata da un viadotto autostradale, ma dimenticata dalla civiltà. Il rinnovamento vitale appare soffocato – in senso metaforico – dalle nascite di creature deformi (il figlio della maciara) o mentalmente compromesse (la bambina di Donna Aurelia, lo "scemo" del villaggio) e – in senso letterale – dalla strage di innocenti operata da un misterioso maniaco strangolatore. Il paesino di Accendura (il nome è inventato) è il classico rifugio dei reietti, della ragazza di buona famiglia finita in un brutto giro, e mandata in esilio dal padre, di agenti e funzionari trasferiti da altre regioni, dei poveri cronisti di nera di una testata pomeridiana del nord, inviati sul posto a seguire gli eventi. Lo stile narrativo di Fulci è navigare a vista nello squallore, e in questa storia l'infinita tristezza dei fatti e la delicata situazione delle persone coinvolte ben si prestano ad un'indagine tentennante, che ha paura di posare il dito su un tessuto umano tanto fragile, perché consumato, per secoli, dal vento sferzante della miseria e dell'ignoranza. Tipica del cinema di questo autore è proprio la sostanza secca e scabra, che si sgretola in mano, e che così pregiudica la formazione di qualsiasi armonia estetica: e qui, tra la vegetazione incolta ed il grigio pietrisco delle montagne, non c'è altro modo di farsi strada che tagliando e scavando. L'ambiente è punteggiato di recessi bui e profondi (il casolare abbandonato in cui i due contadini si appartano con le prostitute, le grotte in cui si compiono riti di magia nera, i boschi fitti, i dirupi, i fossati), come un paesaggio infernale che spalanca le fauci sui viventi. Sembra allora inevitabile che, in tanta vorace crudezza, non ci possa essere scampo per il tenero candore dei bambini, insidiati dai mille trabocchetti di una natura selvaggia, a cui l'umanità primitiva e barbara dei luoghi da sempre appartiene. Superstizione e vendetta sono le rozze prigioni che incatenano le menti e le anime, e non esiste alcuna razionale via di uscita. In Non si sevizia un paperino la narrazione procede a passi lenti per esplorare un male atavico ed endemico, che non ammette appigli interpretativi; e ciò che racconta è, di per sé, una macabra danza rituale, in cui il mistero, la stranezza e la follia sono le coreografie di una ragione coartata, che negli spazi angusti di un tempo eternamente fermo, è costretta a chiudere gli occhi e a contorcersi su se stessa.
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