Primo tratteggio d’autore e capolavoro della “trilogia del milieu” ad opera di uno dei registi italiani molto amato da Tarantino che si ispira per il lungometraggio alla lontana alle opere di Scerbanenco (la definisce una pastura) e guarda al Polar solitario di Melville solo in parte in quanto in questo caso manca quel moralismo in valore assoluto associato alla poetica del francese rimpiazzato dal realismo della natura umana.
Ugo Piazza è uscito di prigione per buona condotta dopo 3 anni per una rapina andata male…ad attenderlo all’uscita del carcere di San Vittore ci sono gli scagnozzi del boss “L’Americano” che lo ritengono responsabile di essersi intascato una valigia piena di dollari in banconote da 10 per una rapina precedente.
Il Maestro dipinge l’animo dei personaggi in ogni loro temperamento e angolazione … filma l’imperfetta natura dell’uomo, la sua fragilità, la solitudine, la nevrosi, le sfumature della sconfitta, la condizione soffocante di una vita ormai finita e il desiderio voltargli le spalle, etc…con una complessa narrativa indagatrice e depistante si confondono il bene ed il male, si accavallano, si intrecciano per poi snodarsi….sono una l’immagine speculare dell’altro non sovrapponibile.
Ugo Piazza (Gastone Moschin che sembra per certi versi il Carlito Brigante della malavita milanese) è un nichilista avvolto nella sua giacca da marinaio con bottoni in doppia fila stretti…ha una cicatrice sul sopracciglio che gli dona una forte dose di ambiguità ed il suo gesticolare nel fumare la Astor lo identifica come una personalità fredda e calcolatrice. La sua fisiognomica sembra quella di un vero duro, distaccato, inespressivo, imperturbabile. E’ un uomo del nord abituato alla nebbia ed al vento che si leva sulle darsene dei navigli ed ai bar fumosi dei ponti…un uomo vissuto che conosce la Milano anni 70 come le sue tasche. Ha solo una debolezza che gli si rivelerà fatale.
Rocco Musco (Mario Adorf), doppiato magistralmente da Stefano Satta Flores, è il braccio armato del sud dell’Americano…ha un codice d’onore ed è il simbolo della malavita organizzata emigrata al nord. E’ un violento e sembra e veste come un gangster della Chicago anni 20. Vuole prendersi tutto dalla capitale lombarda…donne, soldi e fama. E’ l’esatto contrario di Piazza…non è un leader e quello che gli riesce meglio è obbedire al suo capo come un cane fedele al suo padrone. Memorabile il suo assolo nel finale ma soprattutto nei primi minuti in macchina fuori San Vittore con Piazza. La migliore interpretazione del film.
Nelly Bordon (Barbara Bouchet) è invece la donna storica di Piazza ma in sua assenza la vita è stata dura…i tre anni di reclusione sono stati troppo lunghi e non c’è bisogno di troppe spiegazioni per capire che è dovuta sottostare a troppi papponi . Le piace la bella vita ed è in attesa dell’occasione giusta per scappare e vivere da vera signora. Menzione a parte per l’inquadratura inclinata sul cubo al night che offre una visione distorta con quel costume di perline quasi a simboleggiare la donna oggetto ma non schiava di tutti gli uomini…una preda da meritare…non per tutti.
Infine come in ogni capolavoro che si rispetti ci sono le comparse, i comprimari che rifiniscono il lungometraggio e lo rendono eterno…Ivano Garrani nella parte dell’ex boss non vedente che non conta più una minghia, Leroy nelle vesti di un sicario con un codice d’onore, Stander che è l’americano ammanigliato politicamente con tanti santi in Paradiso e Ernesto Colli che è il tossico che esplode ad una cabina telefonica…pochi minuti ma incisivo.
La colonna sonora di Bacalov suonata dagli Osanna che un gruppo rock progressive campano è pentagrammata alla perfezione in ogni fotogramma e calzante come poche in un film. E’ un viaggio di contaminazioni jazz, blues che sfociano in una musica afroamericana che intreccia anche note classiche e le fonde con le settime e le none senza strafare…sembra una colonna sonora che non ha mai fine…un’armonia variegata di minori e settime che accompagna l’esistenza di una vita amara e piacevole al contempo….gli alti e bassi prima di tirare le somme.
La scenografia urbana è quella della Milano pericolosa, violenta, corrotta con una sua moralità che si amalgama alla natura dei personaggi….non c’è il sole ma solo grigiore, cupezza e smarrimento…una Milano da odiare, stereotipata ma anche suggestiva a suo modo con le sue insidie…nessuno è al sicuro e non c’è scampo…è la vera preda…la vacca da mungere….la città che conta
Non può mancare il messaggio politico inserito in ogni film del Maestro che menziona la sua politica e le sue idee nella stesura dei dialoghi in questura…Frank Wolff (Commissario) e Luigi Pistilli (Vicecommissario ed intellettuale di sinistra rispecchia il pensiero del Di Leo) discutono del potere legislativo sull’amnistia e la denuncia delle carceri. Una sorta di scontro politico e generazionale tra due modi di vedere e vivere le istituzioni. Il commissario è la vecchia guardia destrorsa mentre il vicecommissario rappresenta la nuova frontiera sinistrorsa che cerca di reagire ai poteri forti e al conservatorismo.….di andare fino in fondo e di denunciare l’andamento socio-politico dell’epoca…poi ci fu la degenerazione nella lotta armata…ma questo è un altro discorso.
Non ci sono scene particolari da menzionare perché il film è un’unica sequenza di scene memorabili…la lenta combustione della sigaretta lasciata accesa rappresenta l’autodistruzione di tutti i personaggi...sono tutti morti o consumati dall’ accidia ma ormai sono eterni…questo è quello che conta.
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