Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
Girato in Messico nel 1955, questo film si rifà liberamente a un romanzo di Rodolfo Usigli, Ensayo de un crimen, pubblicato nel 1944.
il tournage, come ricorda lo stesso Buñuel, fu assai accidentato, sia perché una grave crisi economica stava investendo il cinema messicano, al punto che il regista fu costretto ad accettare la proposta, che gli veniva dal sindacato degli attori, di produrre il film in cooperativa, sia perché, dopo soli 15 giorni, l’Usigli vietò qualunque variazione al proprio testo, interrompendo inevitabilmente ogni collaborazione al film.
Buñuel – d’altra parte interessato soltanto ad alcuni aspetti dello scritto relativi all’ossessione del protagonista Archibaldo de la Cruz (Ernesto Alonso) – risolse il problema citando il romanzo come semplice fonte di ispirazione; lo scrittore non ne fu troppo contento, ma mantenne la sua amicizia con il regista.
Il film fu, dunque, portato a termine, nonostante gli incidenti di percorso.
Arcibaldo (chiamato, per ragioni misteriose, Alessandro nella versione italiana) rievoca attraverso numerosi flash-back gli episodi che nel corso della vita lo avevano reso un potenziale assassino, cominciando dalla vicenda che egli considera all’origine di tutte le altre: la grande fascinazione che, da piccolo, esercitava su di lui il carillon della madre, oggetto magico, secondo il racconto dell’odiata governante, che rendeva possibile realizzare i desideri più segreti del cuore.
La morte della sua istitutrice, colpita accidentalmente da un’arma da fuoco mentre Archibaldo ascoltava la musica del carillon, era stata secondo lui la prova che il misterioso oggetto lo avrebbe reso onnipotente, permettendogli persino di disporre della vita altrui.
In quel frangente lo aveva profondamente turbato anche la visione del sangue che fluiva dal corpo ferito di lei, ormai a terra, con gli abiti scomposti che lasciavano intravedere la sua nudità: egli aveva oscuramente intuito l’inquietante correlazione fra eros e morte, all’origine dell’ossessione omicida che avrebbe turbato tutta la sua esistenza.
I suoi progetti, minuziosamente studiati, di uccidere alcune donne belle e giovani, però, si sarebbero ogni volta scontrati con i capricci del caso, che nel film – buñuelianamente e anarchicamente – pare ridersela delle sue intenzioni femminicide: erano almeno tre le donne che avrebbe voluto uccidere e che erano morte per davvero, ma non per mano sua.
I sensi di colpa di Archibaldo de la Cruz lo avrebbero indotto a costituirsi alla polizia, per confessare le proprie intenzioni delittuose, ma senza alcun risultato: desiderare la morte di qualcuno, infatti, non è reato, né basterebbero le carceri di tutto il mondo se lo diventasse…
Non gli resterà, perciò, che riporre in un sacco il carillon, caricarselo sulle spalle come un pesante fardello e liberarsene, inabissandolo nelle acque del fiume più vicino, nella speranza di vivere, infine, più serenamente.
Il film, generalmente considerato tra i minori di Buñuel, contiene, invece, immagini e sequenze indimenticabilii, alcune delle quali – la gamba staccata, il sacco, il fardello, l’abito bianco della sposa, le fiamme… – sono stilemi tipici del suo linguaggio e rimandano alla sua volontà di dar voce, sullo schermo all’inconscio e agli impulsi profondi e inconfessabili che ispirano le azioni umane.
La sequenza del manichino di cera, che si scioglie nel crogiolo che Archibaldo aveva approntato per uccidere Lavinia (Miroslava Stern), è, a mio avviso, una delle scene più drammatiche e impressionanti dell’intero suo cinema ed evoca i manichini di molta letteratura fantastica ottocentesca, studiati da Freud*, che, come Sade, aveva ispirato i surrealisti, interessati a evidenziare le verità profonde dell’animo, che le visioni oniriche e le ossessioni rivelano, soprattutto fra i borghesi che vogliono nasconderle con l’aiuto della chiesa e della repressione autoritaria degli stati.
In conclusione: un gran bel noir, teso, che prima del finale – ironicamente convenzionale – presenta un’ultima divertente immagine, testimonianza dell’impareggiabile genialità di Buñuel: una sensuosa cavalletta che resiste al bastone di Archibaldo che vorrebbe ucciderla…
Sicuramente uno dei film migliori del periodo messicano.
* il saggio freudiano del 1919 è Das Unheimliche, ovvero Il Perturbante, importante indagine sull’atmosfera inquietante dei racconti di Hoffmann.
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Recensione del 23 agosto 2011, già pubblicata da Mymovies, ora rielaborata e parzialmente riscritta per questo sito.
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