Regia di Richard Brooks vedi scheda film
Quattro mercenari (Marvin, Lancaster, Strode e Ryan) vengono assoldati dal ricco Joe Grant (Bellamy) affinchè liberino sua moglie (Cardinale), rapita dal rivoluzionario messicano Jesus Raza (Palance). I quattro accettano e partono per liberare la donna, senza sapere però che avranno parecchie sorprese nel corso dell'impresa.
Gli anni Sessanta furono un periodo particolarmente critico per il western americano, che versava in una situazione di profonda crisi, dovuta anche alla radicale innovazione compiuta in Italia dall’opera di Sergio Leone: il regista romano aveva infatti chiaramente dimostrato che il genere western non era più una prerogativa esclusiva del cinema statunitense.
La risposta americana ai film di Sergio Leone fu inizialmente molto deludente: c’era chi, infischiandosene del fatto che i tempi erano cambiati, tentava di perpetuare la lezione del western classico con risultati francamente pessimi (vedasi la filmografia di Andrew V. McLaglen), e chi invece cercava di scopiazzare senza arte né parte lo stile di Leone. Ma ci fu anche chi seppe distinguersi ed elevarsi al di sopra della media, dando linfa nuova al genere e preparando il terreno per i rinnovamenti che verranno successivamente (in primis Sam Peckinpah con "Il mucchio selvaggio"). Stiamo parlando appunto di Richard Brooks, regista poliedrico e particolarmente versatile, ma nonostante ciò molto sottovalutato e al giorno d’oggi quasi del tutto dimenticato.
Con “I professionisti” Richard Brooks torna al western dopo dieci anni (nel 1956 aveva diretto “L’ultima caccia”) e gira quello che probabilmente sarà il suo capolavoro. Partendo dal romanzo “A Mule for the Marquesa” di Frank O’Rourke, Brooks trasforma un’idea di base molto sfruttata al cinema (un gruppo di “mercenari” che si avventurano in territorio ostile per salvare una donna prigioniera di un crudele rapitore) in un film maturo e complesso, ricco di notazioni morali e politiche, che offre una disincantata riflessione sul fallimento degli ideali di un’intera generazione, sulle logiche distorte del potere rivoluzionario, qualsiasi esso sia (“La rivoluzione è sempre uguale. Si tratta dei buoni contro i cattivi. C’è solo un dubbio: quali sono i buoni.”) e sull’impossibilità “di rifugiarsi dietro l’asetticità professionale di chi si preoccupa solo di eseguire il proprio lavoro” [Paolo Mereghetti]. In questo senso “I professionisti” è un film che rifiuta categoricamente qualsiasi facile manicheismo o soluzione a buon mercato.
La sceneggiatura, opera dello stesso Brooks, è eccezionale nel mettere in luce tutti questi aspetti; ma anche dal punto di vista tecnico-registico il film è notevole: la narrazione è straordinariamente fluida e scorrevole, la fotografia di Conrad L. Hall è rispettosa della luce naturale (il film è girato quasi per intero in esterni) e l’azzeccata colonna sonora di Maurice Jarre conferisce un respiro epico alla vicenda.
Il reparto attoriale poi, è proprio da urlo: Lee Marvin, granitico e di poche parole, a cui fa da contraltare un indimenticabile Burt Lancaster, alle prese con un personaggio cinico che per certi aspetti richiama quello da lui interpretato anni prima in “Vera Cruz” (“Che altro hai nella testa oltre alle donne, il whisky e le barre d’oro zecchino?” – gli chiede Marvin in una scena- “Nient’altro, hai scritto il mio epitaffio” – risponde lui), abbiamo poi gli ottimi Woody Strode e Robert Ryan, quest'ultimo a dire il vero un po’ sacrificato, e Jack Palance, impagabile, nella parte del bandito messicano Jesus Raza. Claudia Cardinale invece non riesce ad essere del tutto convincente, e ciò è particolarmente evidente nella versione italiana, dove peraltro si doppia da sé in maniera molto discutibile.
Tra i momenti di grande cinema va incluso indubbiamente l’incipit, con la presentazione dei quattro “professionisti”, il monologo sulla rivoluzione di Jack Palance e il confronto finale (“Tu sei un bastardo!” dice Ralph Bellamy a Lee Marvin. E questi prontamente risponde: “Si è vero, solo che io ci sono nato, mentre lei si è fatto da solo”).
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