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Il secondo tragico Fantozzi

Regia di Luciano Salce vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il secondo tragico Fantozzi

di Inside man
8 stelle

I due capitoli iniziali della saga fantozziana costituiscono uno straordinario e vitalissimo caso di successo intergenerazionale (con il secondo leggermente più significativo del primo, nonostante risulti meno compatto strutturalmente).
La circostanza di non conoscere declino popolare né cinefilo, né tantomeno accenni di datazione a dispetto di una ben delimitata collocazione temporale del soggetto, testimonia delle proprietà della verve comica, della giusta dimensione satirica, della felice qualità delle gag di situazione e dello stile slapstick (rivisitato in chiave più grottesca che dinamica). Tutto questo però, non è sufficiente per comprenderne appieno le ragioni: in entrambe le pellicole infatti, è indispensabile osservare quanto la comicità parodico/caricaturale poggi stabilmente sulle poderose fondamenta di un registro ridicolo promosso a vertici di sublimazione estetica (valga da esempio per tutti, l’episodio ferocemente icastico del cineforum aziendale, con tanto di incontro calcistico della nazionale “negato” in cambio dell’ennesima visione del capolavoro di Ejzenstein, La corazzata Potemkin).
 
Un sommo letterato italiano, quasi duecento anni fa, coglieva magnificamente uno dei noccioli della questione comica “nell’epoca moderna”, legittimando ed innalzando il ridicolo (e le sue funzioni) al rango di poetica.
Trovo che un estratto di quelle brillanti riflessioni (sotto riportato), si attagli perfettamente all’oggetto del discorso, tramutandosi retrospettivamente (come ovvio in maniera del tutto involontaria al suo estensore) in una breve analisi-dimostrativa compiutamente applicabile alla variante cinematografica del dittico fantozziano (e particolarmente all’esemplare frammento di “Italia-Inghilterra vs Potemkin”), risultando utile inoltre, nell’aprire un considerevole spiraglio di luce in primis sulla reale fenomenologia di una formula di successo, ed in secondo luogo sulla questione dell’accreditamento artistico di “un genere” così restio ad essere riconosciuto estesamente da noi contemporanei, tuttora palesemente vittime di vetusti e mai superati pregiudizi sull’arte buffonesca (in realtà seminale in diverse occasioni della millenaria storia dello spettacolo).  
 
“A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagatelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importa, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto… E credo che le armi del ridicolo, massime in questo ridicolissimo e freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza, potranno giovare più di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione, dell’eloquenza; e anche più di quelle del ragionamento, benché oggi assai forti.”
(Giacomo Leopardi – Zibaldone - 27 luglio 1821)
 
Dunque serietà di temi e contrasti, gli elementi essenziali d‘elevazione di una poetica del ridicolo, e di tutela nel tempo della vis comica.
E in un decennio (gli anni “70), in cui tendevano ad imboccare derive ideologicamente esasperate (e purtroppo a volte violente) sia le sacrosante istanze di libertà e ribellione nei confronti di trame di stato eversive e di situazioni sociali grettamente oppressive, sia le lotte per le conquiste di diritti civili palesemente irrinunciabili in una moderna società laica (diritto del lavoro, divorzio, pari opportunità), Villaggio e Salce decisero di affrontare quel quadro optando per una “scelta anti-tragica”, fissando principalmente la necessità di mettere in ridicolo mali ancestrali e nuove ingiustizie, con un’invidiabile parafrasi umoristico-surreale degli stereotipi italici più solidamente radicati in quel turbolento tessuto collettivo.
In quest’ottica ambedue i Fantozzi si prospettano a pieno titolo come film di impegno contestatario (ivi compresa l’impudente disapprovazione dell’arte istituzionale, qui rappresentata dal Potemkin, una delle vocazioni costitutive delle avanguardie del periodo), con esiti assai meno velleitari e più lungimiranti di molte coeve pellicole dichiaratamente militanti (“…le armi del ridicolo potranno giovare di più…”), basti pensare alla popolarità ancora intatta dell’immaginario fantozziano sulle attuali giovani generazioni alle prese con la drammatica restaurazione di comparabili regimi ricattatori sui luoghi di lavoro (vertiginosamente acuitisi dopo la crisi speculativo-finanziaria del 2008).
D’altronde, che sia una satira ficcante fondata sul ridicolo a procurare i maggiori fastidi ai detentori del potere, rispetto agli sterili sforzi di opposizioni politiche e giornalismi d’inchiesta, non è forse una concreta tangibilità dell'oggi più che del passato?
 
Proseguendo nel paragone omologico, non sono forse serie e contrastate le tematiche sottese ai rapporti in famiglia e sul lavoro, o le nozioni afferenti l’autostima e l’accettazione identitaria nel gruppo? Non risultano importanti e dibattute le questioni sociologiche nascoste dietro l’irrefrenabile passione calcistica, l’intoccabilità del serale rito televisivo, le mortificazioni inflitte dalle più svariate tipologie di mobbing? E l’antitesi fra le difficoltà divulgative della cultura artistica e il fascino di massa degli eventi agonistico-competitivi o mondano-gossippari? Tra educazione al gusto e passiva sottomissione a diktat mediatici sempre e comunque condizionati dal dio-marketing? Fra sviluppo di un’indipendenza di giudizio e il soccombere a mode strategicamente innalzate a status sociale?
E' su queste molteplici e contraddittorie basi d’argomentazione, estremamente variegate, impegnative, rischiose, ricche d’interesse e conflitti, che il ridicolo villaggesco fa breccia con grande acume e sagacia fino a nobilitarsi di significati poi divenuti intramontabili.
 
Oltretutto, in alcune scene, il dittico non esita a spingere su di un tasto di agghiacciante durezza (ancora temi forti e contrasti inusuali) come nell’umiliazione di Mariangela da parte dei dirigenti, o quando il ragionier Ugo, annichilito subdolamente dal “celeste” megadirettore, viene destinato al ruolo di parafulmine (e veder subentrare nell’espressione divertita dei nostri figli, una nota di triste sconcerto, rivela il giovamento di una spietata lezione universale: in mezzo a risa e lazzi si deve comprendere rapidamente come in questo sciagurato mondo, chiunque non abbia in mano le redini del gioco non si possa attendere né rispetto nè lieto fine).
 
Tornando sul "Kotiomkin", rimane davvero paradossale dover constatare, a 35 anni di distanza, il mancato esaurirsi di critiche sprezzanti e sdegnate verso un bellissimo episodio filmico, il quale satireggiando e parodiando un’opera d’arte, o meglio, una pungente seppur forzatissima combinazione tra forme di sopruso di classe ed elitarismo intellettuale, esprime a sua volta un memorabile momento artistico che nulla va ad intaccare del primigenio valore del Potemkin, mentre si incarica di avvalorare ed attualizzare lo stralcio leopardiano cui abbinare una precisa esegesi delle “Operette morali” leopardiane scritta da Giuliana Benvenuti (anch'essa da traslare in maniera eterodossa verso i modi del primo-Villaggio) : “si assiste così al superamento della dicotomia alto/basso, tragico/comico, realizzato da una veste comica, ludica, satirica, parodica, e ironica che trasmette una filosofia tragica” **.
Stralcio ed esegesi sono parimenti nodali per confutare una presunta profanazione del sacro (semmai si tenta di sacralizzare il profano, almeno parzialmente) e rigettare l’approssimativa categorizzazione dicotomica tra cinema intellettuale d’autore (eguale “alto”), e cinema prosastico di genere, tanto più se comico/ridicolo (eguale basso).
 
Se può apparire un’irriverente eresia associare testi e dettati filosofici leopardiani a commento de “Il secondo tragico Fantozzi” (e sotto più angolazioni lo è senza dubbio), se è altresì conveniente ribadire l’indiscussa venerazione del poeta recanatese (come pure dell’autore sovietico, ovviamente), con le dovute proporzioni non così empia può essere intesa la nobilitazione della coppia Villaggio/Salce, e meno che mai l'accusa di pubblicità diffamatoria e lesa maestà nei riguardi del Potemkin della loro beffarda “zingarata” scatologica.
Volenti o nolenti quel menzognero e spassosissimo “è una cagata pazzesca!” rimarrà indelebile tra una miriade di simil-battute (disperse) del cinema ridanciano, proprio per le qualità intrinseche e le ragioni appena esposte (Leopardi si rivolterà nella tomba, tuttavia serviva al modestissimo scopo).
 
Doveroso aggiungere in appendice, come dopo Il secondo tragico Fantozzi sia Villaggio che Salce persero irrimediabilmente la loro miglior vena, consumando un’involuzione in un bozzettismo macchiettistico fattosi complice non secondario della ricaduta del nostro ridicolo cinematografico sopra “bagatelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo,…che nulla giova, poco diletta, e presto annoia”, con buona pace dei fan dell’innocuo e lenitivo “trash”. Amen.
 
** Citazione da “Un cervello fuori di moda” di Giuliana Benvenuti – Pendragon – 2001.

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