Regia di Luis Buñuel, Salvador Dalì vedi scheda film
Di cani, men che meno andalusi, nel film non c’è traccia. Ma è un rischio calcolato, dato che in “Un chien andalou” non esiste una trama, addirittura nemmeno una logica, tanto da essere considerato il manifesto del surrealismo cinematografico. Un piccolo film, solo 15 minuti, per un grande contributo alla storia della settima arte. Louis Bunuel, che credeva talmente tanto nel progetto da dilapidare - si dice - gran parte del patrimonio familiare per realizzarlo, mette in immagini un flusso di incoscienza fatto di puro onirismo, scelte azzardate, continui nonsense. E nonostante la possibilità di utilizzare il sonoro, gli autori non solo non ne fanno ricorso (si pensi al suono del campanello di casa rappresentato da due shaker), ma addirittura rifuggono qualsivoglia didascalia, lasciando parlare l’essenza discorsiva cinematografica per antonomasia: il montaggio. Al di là del forte impatto emotivo di molte scene ampiamente conosciute (le formiche nel palmo, le carcasse d’asino, la bava color sangue) o addirittura leggendarie (come nel caso dell’occhio tagliato che apre il film), scene tutte realizzate grazie al geniale contributo del pittore spagnolo Salvador Dalì, Bunuel concentra la sua attenzione sugli stacchi di montaggio, alludendo a interrelazioni azzardate tra peli femminili e ricci di mare, libri e pistole, asini e preti. A quasi un secolo di distanza il film mostra un leggero sentore di naftalina, ma basta pensare a cosa voglia dire oggi un seno palpato, confrontandolo con cosa significasse all’epoca, per comprendere l’audacia di certe scelte ed il valore estetico dell’intero film.
“Un chien andalou” trasuda di passione e di storia del cinema. E tanto basta per tenerne una copia nascosta nel più recondito dei cassetti, magari a righe, della propria memoria.
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